Go Nagai Net

7° Concorso di Go Nagai Net - Fan Fiction

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icon12  view post Posted on 2/8/2022, 17:24     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Per commentare, in attesa che si aprano i sondaggi: qui.

Edited by shooting_star - 11/12/2022, 21:55
 
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.Luce.
view post Posted on 3/12/2022, 16:12     +7   +1   -1




IL LUNGO VIAGGIO

z

Avvertenza per i lettori: in qualche punto della storia, ci sono scene spicy.

Izar, una stella binaria nella costellazione di Bootes.
Su questa stella, approdò il principe di Fleed circa sei mesi prima di stabilirsi sulla Terra.
Un pianeta abitato e piuttosto ricco di vegetazione e miniere ricche di carbon fossile, acciaio, metalli. Quasi certamente ignorato dai veghiani, i quali avevano ben altre mire quando decidevano di conquistare o depredare un pianeta: i loro interessi dominanti erano la tecnologia avanzata e il vegatron.
Duke Fleed parcheggiò il suo disco all’interno di una caverna che si trovava a lato di una radura semi pianeggiante, circondata da ruscelli e laghetti.
I primi giorni li passò visitando la Capitale e la vastissima periferia. Di solito, nel tardo pomeriggio, passeggiava tra campi, alberi e laghetti.

Una mattina si sentì chiamare da una voce femminile. Si voltò di scatto, e vide di fronte a lui una giovane, il cui aspetto gli era in qualche modo familiare.
“Duke Fleed…”
“Si? Chi sei tu?” le domandò sorpreso.
“Io sono Kyra. Alcuni anni fa sono stata ospite nel tuo palazzo, durante una festa che riuniva famiglie blasonate. C’erano molti invitati, erano così tanti che gran parte di loro hanno pranzato in giardino. Noi due ci siamo scambiati poche parole; qualcosa o qualcuno si metteva sempre in mezzo, oppure arrivavano nuovi ospiti ed eri costretto a fare gli onori di casa.”
“Sì, qualcosa ricordo” le disse pensoso, ma la ragazza che lui vagamente ricordava, aveva, in mezzo ai capelli scuri, molte ciocche color lavanda e anche i suoi occhi erano quasi viola, mentre ora erano bruni come i capelli.
“So cosa stai pensando” lo anticipò lei.
“Ho smesso di tingermi i capelli e i riflessi di questo pianeta hanno modificato il colore degli occhi.”
“Ah…” le sorrise sollevato.
La guardò meglio e notò che il suo viso era pallido e sofferente. Lo sguardo era a tratti sfuggente e circospetto; sembrava stesse fuggendo da qualcosa o da qualcuno, benchè lei cercasse di mostrarsi disinvolta.

“Ora devo andare” gli disse con una nota di rimpianto nella voce.
“Teniamoci in contatto, vuoi? Sono qui da pochi giorni e…”
“Sì, io non ho nessuno, come penso anche tu. Abitavo nella parte ovest di Fleed, molto distante dal tuo palazzo, dunque. Ma anch’io, come te, ho perso tutto. Re Vega non ha risparmiato nessun punto della nostra magnifica stella quando ha lanciato la seconda potentissima bomba al vegatron”, mormorò abbassando gli occhi velati di lacrime.
“A presto, Kyra” le disse mentre si allontanava velocemente da lei. Il ricordo di quanto era avvenuto, gli aveva riaperto la ferita dentro il cuore.
“Arrivederci Daisuke. So bene che non è il tuo nome, ma sento che ti appartiene… o ti apparterrà un giorno. Spero non ti dispiaccia se ti chiamo così” gli disse con un sorriso misterioso.
Si allontanò svelta, voltandosi per un ultimo cenno di saluto con la mano.

Non erano passati tre giorni, che il principe di Fleed vide una chiamata sul suo disco. Era lei.
“Ciao… mi trovo alla stazione delle navette, sud est della città. Puoi venire a prendermi? Sono appena uscita dall’ospedale.”
“Vengo subito.”
La voce di Kyra era debole e celava sofferenza, benchè si sforzasse di essere forte.
Era appena uscita dall’ospedale? Cosa le era successo? Quando l’aveva incontrata aveva notato infatti qualcosa di strano in lei, qualcosa di stanco e malato.
Neanche mezz’ora dopo si incontrarono. Lei si alzò lentamente dalla sedia che occupava la sala d’aspetto e gli andò incontro. Lui le prese la mano e la guidò fuori, dove aveva affittato un piccolo veicolo di trasporto.
Durante tutto il tragitto non parlarono. Era ormai sera inoltrata, lei gli indicò la strada da percorrere per arrivare al suo alloggio.
“Resta con me questa notte. Sto male e ho paura” disse in un sussurro.
“Ma certo, cara.”

Entrarono in un edificio alto e stretto. Salirono per una scala ripida, non c’era illuminazione nei corridoi, l’unica luce che entrava dalle vetrate era quella di un grosso lampione su quel vicolo stretto e tortuoso.
Lei aprì la porta di un piccolo appartamento e accese la luce. Un bilocale munito di angolo cottura. Kyra si buttò sul letto esausta con le mani sopra la testa, poi iniziò a raccontare.

“Sono reduce da uno scontro terroristico, avvenuto qualche settimana prima di incontrarti. Un gruppo di giovani, certamente inviati da Vega, hanno sparato e buttato bombe. Alcuni sono periti, mentre i superstiti sono fuggiti. Io sono rimasta ferita: un colpo alla testa e qualcosa mi ha perforato l’addome. Nel giro di poche ore mi sono sentita meglio, e mi sono illusa che tutto fosse finito lì. Ma poi i dolori sono tornati sempre più intensi, così mi sono recata in ospedale. Una lieve commozione cerebrale, ma la cosa più seria è stata l’altra ferita. Mi hanno ricucito una parte dello stomaco, tolto la milza, più qualche escoriazione non grave su tutto il corpo.
Sono ancora molto debole, perché qui, dato che i posti letto negli ospedali sono limitati, appena uno è in grado di stare in piedi, viene rispedito a casa, insieme ad una serie di farmaci da assumere per un certo periodo.”

I danni fisici da lei riportati, uniti al fatto di aver vissuto per mesi in un ambiente inquinato e pieno di gas tossici, quasi certamente l’hanno resa sterile. Deve assumere questi farmaci per un paio di mesi. Tuttavia, grazie alla sua forte tempra e giovinezza, può considerarsi guarita e condurre una vita normale.

Questo il referto medico al momento del congedo.

Duke Fleed aveva ascoltato in silenzio, tenendole sempre la mano. Un sospetto si era insinuato nella sua mente quando lei aveva parlato dell’attentato. Aveva la quasi certezza che non erano venuti lì per invadere il pianeta o procurarsi materie prime, ma sterminare buona parte della popolazione, in quanto, essendo tutti liberi e certamente armati, sarebbero stati in grado di correre in soccorso ad altre popolazioni vicine, quelle che Vega voleva assoggettare a sè.

Kyra era finita lì per errore, su questo non c’erano dubbi, e ora doveva solo pensare a tornare in forze.
Dalla grande borsa estrasse una lunga serie di scatole e le pose sopra il comodino: erano le medicine che doveva assumere per guarire.
Gli sorrise, benchè non ci fosse gioia nel suo viso, ma dolore fisico, stanchezza e spavento. Lei temeva in una possibile ritorsione da parte di quella gente.
“Chiudi bene a chiave la porta, Daisuke. Non ho la camera per gli ospiti, ma c’è posto per entrambi”, gli disse indicando il suo letto.
Lei si tolse il vestito, lui la camicia. Sotto l’abito, Kyra portava una maglietta da pelle chiara, molto scollata e con spalline sottili. La parte sopra era di pizzo trasparente. Seduta sul letto, gli cinse la vita con le braccia fissandolo dal basso verso l’alto con occhi grandi e un’ombra di desiderio, nonostante fosse stremata e febbricitante.
“Cara… ora ti devi riposare” le suggerì posandole una mano sulla guancia smunta.
Si misero a letto e per alcuni minuti conversarono circa le invasioni veghiane, le ultime notizie, brevi frammenti della loro vita prima e dopo la guerra, poi scivolarono lentamente nel sonno tenendosi per mano.
Si svegliarono quando il sole era già alto nel cielo. Lui preparò la colazione e lei ingoiò subito alcune pastiglie insieme ad un cucchiaio di liquido scuro.
“Come ti senti oggi?”
“Meglio di ieri” gli sorrise accomodandosi a tavola.

Passò una settimana. Kyra migliorava giorno per giorno; verso il tramonto uscivano per qualche breve passeggiata, a volte mangiavano fuori, oppure prendevano la navetta e si avventuravano in un piccolo viaggio tra le stelle. Stavano bene insieme, non si annoiavano mai e quando la giovane si sentì rimessa completamente in forze, gli parlò di un suo progetto.
“A sud-est di questa stella, c’è una grande fattoria ormai abbandonata da decenni. Non appartiene a nessuno, a me piace molto e in questo periodo ho fatto in modo che alcuni contadini si occupassero dei lavori essenziali, ma ora intendo andarci e sistemarla come si deve, soprattutto la casa. Dal tablet gli mostrò il luogo e l’ubicazione.

“E’ molto grande, il terreno sembra fertile e adattissimo per allevare gli animali, specie i cavalli. Spazi verdi e ruscelli” mormorò il ragazzo turbato, perché quel luogo, gli ricordava in modo vago qualcosa del suo pianeta distrutto dai sicari di Vega.
“Voglio partire prestissimo, e quando sarà tutto pronto, verrai a trovarmi, vero?” gli chiese con tono quasi supplichevole, poi gli cinse il collo con le braccia e posò le labbra sulle sue.
Quella notte la passarono abbracciati.

All’alba del giorno dopo, Kyra si vestì con cura e decise di recarsi subito alla fattoria.
“Sei sicura? Non è troppo presto?” le chiese il ragazzo. Da un lato capiva e approvava la sua voglia di reagire e guardare avanti, dall’altro temeva non fosse ancora pronta; e l’idea di starle lontano lo rattristava.
A giudicare dal suo aspetto, la salute era decisamente migliorata: l’incarnato luminoso, gli occhi vivi e gioiosi, la sua figura era colma di giovinezza e di vita, sprizzava di energia e impazienza da ogni poro.
“E’ il momento di andare, lo sento” gli disse “e so che presto ci rivedremo.”
Dall’armadio tolse i vestiti e mise i suoi effetti personali dentro una grande valigia Sulla soglia, diede un’ultima occhiata alla stanza, poi scese la lunga scala e si diresse verso il suo velivolo.
Duke Fleed prese il bagaglio e l’accompagnò fino alla navetta.
“Non vuoi che ti accompagni?” le domandò premuroso.
Lei scosse il capo in senso di diniego e gli fece capire che quell’avventura la doveva vivere da sola.
“Voglio che tu venga a trovarmi quando la fattoria sarà a posto; i miei uomini lavorano sodo, ma deve diventare come voglio io. Il tocco femminile è fondamentale. Ah, dimenticavo una cosa: se vuoi, puoi usare il mio appartamento” gli disse con un sorriso gentile e partì.

Passò una settimana. Il giovane rimase nella casa di Kyra e, durante quel periodo, visitò la stella da nord a sud. Una sera, trovò un messaggio della ragazza.

Daisuke, ti attendo al più presto per ammirare questo luogo d’incanti.
Kyra

Il mattino dopo, Duke Fleed era in viaggio. Non aveva fretta di arrivare, perché il panorama mutava ogni poco, ed era sempre più spettacolare. Dopo aver attraversato una vasta pianura di un verde a tratti mutevole, ecco apparire una montagna innevata, poi una cascata, ruscelli e laghetti. Un altro spazio pianeggiante ricoperto di fiori coloratissimi e piante mai visti prima. Ecco una stretta spiaggia, poi il mare, palme, conifere. In nessun luogo dell’universo aveva ammirato tanta bellezza.

Arrivò alla casa di Kyra nel tardo pomeriggio. La trovò in giardino. Indossava una maglietta chiara e un paio di jeans. Curava l’orto, raccoglieva fiori, mentre il giardiniere strappava erbacce, rastrellava, e più lontano, altri addetti ai lavori finivano di imbiancare l’edificio e sistemare il tetto.
Lei riconobbe subito il suo disco, sorrise, gli fece cenno di saluto con la mano e gli corse incontro.
“Ben arrivato!” gridò festosa. “Puoi parcheggiare in questo lato, che è molto vasto e pianeggiante.”
Si abbracciarono felici, poi lui la osservò con attenzione. Era bella, abbronzata, la sua giovinezza e la buona salute, avevano decisamente prevalso sulla recente malattia; era evidente che in quel posto stava bene e si sentiva realizzata.
“Vieni dentro, ti mostro la casa” gli disse, prendendolo per mano.

Il pianterreno era composto da una sala di medie dimensioni, con un pavimento di granito rosso: dalla porta accanto si entrava in una cucina ampia, luminosa e tutta chiara. Lo spazio era semivuoto, mancava ancora molto per arredarla completamente, ma non mancava dell’essenziale.
Salirono pochi gradini: sulla destra del pianerottolo c’era la camera da letto, sulla sinistra i servizi.
In fondo, una stanza in disordine e piena di mobili: alcuni da restaurare, altri ancora imballati e pezzi di legno tarlato.
“Vorrai certamente lavarti e cambiarti dopo il viaggio: questo è il bagno, qui ci sono gli asciugamani, saponi e bagnoschiuma. Io intanto preparo la cena, tu fai pure con comodo” gli suggerì la ragazza spingendolo dentro una stanza rettangolare con piastrelle bianche per terra e azzurre alle pareti.

Più tardi, stavano entrambi seduti uno di fronte all’altra in un piccolo tavolo quadrato della cucina.
Duke Fleed indossava una camicia azzurro chiaro e pantaloni blu. Kira era bellissima e provocante. Si era leggermente truccata, le labbra carnose erano un invito al bacio, la pelle olivastra emanava vita, calore, sensualità.
Tutti i suoi modi erano provocanti, ma al contempo innocenti: come serviva le portate, il modo di porgere, quando si alzava per prendere qualcosa, dentro quell’abito leggero e senza maniche che faceva indovinare la sua splendida figura.
Entrambi assaggiarono appena le pietanze: senza dirselo, agognavano il momento in cui si sarebbero ritirati nella stanza da letto.
“… vedrai, quello che ti darò stasera, sarà ben diverso di quella notte che abbiamo condiviso quando ero appena uscita dall’ospedale…” disse lei ammiccando con un sorriso malizioso e carico di sottintesi. Nel dirlo, aveva allungato la sua splendida figura sulla sedia, in modo che lui potesse ammirarla meglio, voleva essere irresistibile.
Finita la cena, Kyra chiese alla moglie di uno degli operai di rigovernare, poi con Duke Fleed, uscì un momento nel grande cortile per augurare la buona notte a tutti e ringraziarli di quella lunga giornata di lavoro che avevano condiviso.
I suoi aiutanti abitavano in un’altra ala della casa, con un ingresso indipendente.


Lunghi capelli corvini, ondulati e lucenti, la pelle tesa e scura. I grandi occhi a mandorla mandavano bagliori incandescenti. Tutta la sua figura, il suo essere, emanavano erotismo e sensualità.
Aveva un corpo elegante: serpentino, quasi fragile, ma tuttavia era compiutamente donna.
Di fronte a lei, nella stanza da letto di quella grande tenuta in mezzo alla campagna, Duke Fleed non si stancava di guardarla.
Dalla finestra aperta, la notte stellata di luna piena entrava ed estasiata ammirava quei due giovani che ansimavano, ed erano travolti da un’evidente passione che presto sarebbe esplosa.
Con un gesto quasi impercettibile, Kyra aprì la cerniera laterale del suo vestito, che in un attimo scivolò a terra. La sua nudità era parzialmente occultata da un minuscolo slip di seta e tulle bianco.
Solo il colore era simbolo di innocenza, poichè nulla era lasciato all’immaginazione. Decisamente trasparente sul davanti, anche la seta dietro si era spostata, lasciando coperti solo pochi centimetri di pelle. Ciò si intuiva anche quando era ancora vestita. L’abito di seta rosso a piccoli fiori si adagiava sulla figura, e quell’unico indumento intimo si intravedeva ad ogni movimento durante quella cena carica di sottintesi.
Sensualità, malizia e innocenza di alternavano in un continuo gioco di luci e ombre, in un crescendo sempre più esaltante.
Kyra era semplicemente irresistibile; quando poco prima aveva preparato la tavola, versato il cibo sui piatti, le sue movenze erano eleganti, caste e sensuali ad un tempo.
Aveva piccoli seni rotondi, i suoi capezzoli scuri erano divenuti turgidi e duri come sassolini per l’eccitazione.
Il ragazzo la fissava con occhi dilatati per lo stupore e il desiderio. Aveva buttato sul tavolo la sua camicia azzurra e aperto il bottone dei pantaloni. Si avvicinò a lei lentamente, ma, la sua indole nobile, lo fece abbassare per raccogliere il vestito e posarlo con garbo sulla sedia.
La stanza era illuminata da una decina di grosse candele raggruppate in un angolo sopra ad un tavolo di legno.
Si avvicinarono l’uno all’altra e si baciarono con passione, per poi scivolare nel grande letto e continuare ad amarsi come non ci fosse un domani. La sensualità, la passione dell’una, erano una cosa sola con l’altro. Non erano più due esseri distinti, un uomo e una donna, ma uno solo. Non sapevano più dove iniziava il corpo di lei e le braccia maschili che l’avvolgevano dalla testa ai piedi.
Si sentiva dominata, ma non oppressa da quel giovane che la stava amando senza riserve. Continuarono così per quasi tutta la notte, finchè le palpebre divennero pesanti e il sonno li condusse in un luogo magico, dove il fondersi dei corpi, amarsi, il piacere, non avevano mai fine.

Il sole del mattino inondava la stanza. Appena alzata, Kyra aveva fatto una veloce toilette, poi si era recata in cucina per la colazione. Seduto sul letto, Duke Fleed abbracciava con lo sguardo tutta la scena.
La raggiunse e l’attrasse a sè, mentre posava le labbra sulla nuca di lei, su quei folti capelli ancora spettinati.
“Ohh, ben alzato!” gli disse voltandosi e ricambiando il bacio.
“Sei bella…” sussurrò osservandola con occhi languidi e malinconici.
Lui indossava una camicia chiara e dei pantaloni blu; Kyra una camicetta bianca a fiori, un paio di vecchi jeans strappati e scoloriti.
Mangiarono in fretta, poi si recarono verso le stalle, e salirono a cavallo. Volevano visitare la tenuta e il territorio circostante. Il clima era mite, soffiava una lieve brezza e con sé portava una folata di mille profumi.
Dopo oltre un’ora di viaggio, si fermarono presso un ruscello per far abbeverare gli animali e riposare.
Nelle loro iridi si specchiava l’intero panorama, insieme alla passione bruciante che avevano consumato la notte prima e che ancora faceva loro tremare le vene.

Restarono in silenzio per qualche minuto, poi lui le prese la mano, la fissò negli occhi e le disse: “Kyra… ormai siamo rimasti soli al mondo… vuoi dividere la tua vita con me?”
Lei sentiva il calore e la forza di quella mano maschile, il suo animo ferito dalle tragedie della guerra, ebbe un attimo di sollievo. Guardò lontano, oltre le colline, poi gli rispose dopo un lungo sospiro abbassando un poco lo sguardo.
“Daisuke, sai bene quello che mi è accaduto. Io non posso avere figli, e tu hai tutto il diritto ad un erede. Ora credi sia tutto perduto, ma so molto bene che, nella vita, prima o poi il cerchio si chiude e tutto torna al punto di partenza, e anche ciò che appariva impossibile, col tempo diventa realtà.”
La guardò sorpreso. Non capiva bene il senso del suo discorso, ma lei lo prevenne.

“Quando avevo circa dieci anni, una notte venni svegliata da una luce irreale. La seguii e mi portò dentro la stanza di mia nonna, che stava morendo. Lei mi aspettava, io mi sedetti sulla sponda del letto e aspettai trattenendo il respiro.

Kyra, io sto andando in un’altra dimensione, quindi dò a te il dono della chiaroveggenza.

Dal cassetto del comodino prese un foglio ingiallito dal tempo, dove c’erano disegni mai visti e parole strane. Le leggemmo insieme, mi disse di tenere quel foglio per tre notti sotto il guanciale, e alla prima notte di luna piena, buttarlo nel lago dove andavo sempre a giocare e nuotare con le mie amiche. Poi chiuse gli occhi per sempre.
Mi rendevo conto che tutto ciò era insolito e misterioso, ma lo vivevo come un fatto quasi normale.
Continuai la mia vita di sempre, a volte facevo sogni premonitori, in altri momenti brevi flash di qualcosa che sarebbe avvenuto. Se ero sola, sentivo chiara e distinta una voce che presto spariva, ma non sempre capivo tutte le parole.
Questo dono è cresciuto nel tempo, man mano che diventavo donna.
Non l’ho amato né disprezzato, non ho fatto niente per svilupparlo, so che fa parte di me, è un’estensione della mia personalità. Mai ne ho fatto cenno ai genitori, né mi sono confidata con un’amica. Tu sei il primo al quale dico questo, e se lo faccio, è perché so che è mio dovere. Mi hai appena fatto una proposta alla quale fatico molto a resistere, vorrei restare sempre con te, ma so molto bene che non è questo il nostro destino. Io vedo che, fra non molto, tu non sarai più un pellegrino tra stelle e pianeti. Ti fermerai in un luogo molto bello, con tanto blu, e incontrerai persone amiche, dall’animo buono e generoso. Non sarà per te semplice arrivarci, ma lì inizierai una nuova vita.”

Kyra tacque e fissò Duke Fleed negli occhi. Non poteva dirgli che, dopo un periodo relativamente lungo di tranquillità, la guerra con Vega sarebbe ricominciata. Sapeva bene che lui non lo avrebbe accettato. E come dargli torto? Ma vedeva anche che, dopo la lunga ed estenuante lotta, il tiranno sarebbe stato sconfitto per sempre e il loro pianeta di origine tornare in vita in modo sorprendente e inaspettato.

E per lei, cosa vedeva? Un uomo dalle tempie grigie, che avrebbe compensato la mancanza di passione e sensualità appena vissuta con quel principe in esilio, con una grande nobiltà d’animo, generosità verso il prossimo, e rispetto per lei. I ricordi dei momenti di passione l’avrebbero accompagnata sempre, calmato in parte la sua innata vivacità, e, nel buio della notte, al posto di quell’uomo pacato, colto e riservato, avrebbe immaginato l’altro.
Avrebbero vissuto per molti anni in quella grande casa, viaggiato, condiviso interessi; e un tardo pomeriggio di fine estate, quando i colori della natura diventano dolci e languidi, lo spirito di lui sarebbe volato in cielo, mentre stava seduto sulla poltrona davanti al camino acceso con un libro letto solo a metà, scivolato lentamente a terra.
Sapeva che quel luogo sarebbe divenuto un punto d’incontro per molti turisti; era pieno di stanze da affittare, non avrebbe sofferto di noia e tristezza nel secondo capitolo della sua vita.

“Ma sei sicura? Può essere che anch’io sia nelle tue stesse condizioni circa la sterilità. Per mesi ho combattuto su Fleed, ho respirato vegatron, sono stato gravemente ferito…” le disse prendendole entrambe le mani. “E io conosco te, stiamo bene insieme.”
“Ora torniamo a casa. E’ quasi ora di cena. Resterai qui ancora per alcuni giorni, e voglio rivivere notti di passione con te” gli disse appoggiandosi a lui. Già fremeva di desiderio.
Sì, lo desiderava con tutta sé stessa, perché sapeva che quei momenti non sarebbero tornati mai più, e lei voleva ricordarli, riviverli con gli occhi della mente per sempre, rievocarli nel tempo, arricchirli di particolari immaginari.
La vita le aveva fatto un regalo meraviglioso.

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“Raggio Antigravità’!”
Il getto di luce multicolore gettato da Goldrake contro il Dragosauro, spinse con forza il mostro marino, ormai pesantemente ferito, addosso alla lama ciclonica lanciata da Alcor con precisione e sincronia perfetta.
Un mostro dalle enormi dimensioni, ovale, una bocca grande quasi come il suo corpo e con lunghi denti aguzzi. Ai suoi lati, aveva due draghi che sputavano fuoco.

“Raggio Super Getta!”

La formula di quest’arma era stata inviata dal dottor Saotome, quando aveva saputo dell’arrivo di quel mostro, e ora, dallo schermo, osservava l’estenuante duello.
“Alcor, tieniti pronto con la coppia di missili da lanciare in attesa dell’arrivo di Venusia. Con questo orrendo e potentissimo mostro marino, temo che la battaglia si risolverà nel suo elemento” disse Procton dal Centro di Ricerche. “Tu Actarus, nel frattempo usa la Spada Diabolica che ci ha mandato il Dottor Kabuto.”

Stavano combattendo da oltre un’ora. Era un misterioso animale preistorico, sopravvissuto non si sa come negli abissi degli oceani. Da giorni stava seminando panico divorando enormi quantità di petrolio in giro per il pianeta, finché non si era diretto verso Tokyo.
Kabuto, Saotome e altri scienziati del Giappone, appena saputo della cosa, non avevano esitato a dare armi, preziosi consigli, aiuti di ogni genere. Ora stavano incollati sullo schermo, ed erano in apprensione, dato che non avevano potuto inviare in soccorso nessuno dei loro piloti: alcuni erano lontano e non rintracciabili, altri non si trovavano in condizioni di combattere: sia per il loro stato fisico, sia la precarietà dei loro robot, i quali avevano bisogno di molti aggiornamenti e manutenzioni circa le armi difensive.

Il Delfino Spaziale era sotto le mani esperte dei tecnici di Procton: aveva qualche problema in termini di velocità, inoltre andava rinforzato con armi nuove e distruttive.
Finalmente il velivolo fu pronto e, senza esitazione, Venusia si lanciò nello spazio.
“Eccomi!” gridò la ragazza appena vide Goldrake e Goldrake2 sopra l’oceano.
“Venusia! Preparati per la manovra di aggancio! Dobbiamo spingerlo sott’acqua” le disse Actarus.
“Sono pronta!”
“Alcor! Lancia una tripla coppia di missili sulla testa del mostro, dobbiamo fare in modo di affondarlo.”
I missili gli perforarono gli occhi e squarciarono la fronte. Il Dragosauro affondò negli abissi.
Il Delfino era già agganciato a Goldrake, quindi lo seguirono sott’acqua.
“Non lo vedo più” disse la ragazza.
“Lancia la lama ciclonica verso quel gruppo di alghe.”
Il mostro si era nascosto lì, infatti: la lama quasi gli troncò la testa, ma era molto grossa e lui non dava veri segni di cedimento.
“Venusia, lancia i missili per due volte di seguito, poi Actarus lo colpirà con l’Alabarda Spaziale e dopo tu ancora la lama ciclonica nello stesso punto dove ha colpito adesso” disse Procton.
“Bene! Missili ciclonici!”
“Alabarda spaziale!”
L’enorme mostro marino venne quasi tagliato in due, mentre il secondo intervento di Venusia gli troncò la testa definitivamente.
“L’abbiamo distrutto! Alcor! Ci sei?” chiese Actarus.
“Sì, siete stati grandi!!
Durante quell’operazione, Alcor era rimasto sospeso in cielo e a tratti era riuscito a vedere qualcosa del combattimento.
Quella parte di oceano, era un’enorme distesa di liquido rosso e verde; i resti del Dragosauro riemersero lentamente dal fondale marino.

Procton e i collaboratori erano visibili sul grande schermo. Anche se ormai il pericolo era passato, sui loro visi era evidente la grande preoccupazione vissuta durante quella lunga battaglia.
Anche Kabuto e Saotome, dalle loro basi, avevano seguito tutto, ed ora erano esultanti e felici.

“Torniamo a casa” disse Alcor.
“Noi passiamo dalla parte opposta, dobbiamo finire il giro di perlustrazione” disse Actarus, mentre il Delfino Spaziale si sganciava dal robot.
“A dopo, allora.”


I due giovani volarono nel cielo limpido senza parlare, poi atterrarono su una pianura in prossimità di una grotta. Scesero dai velivoli, ed entrarono per osservarla. Era in tutto e per tutto molto simile ad un’altra grotta, quella in cui Venusia aveva saputo che Actarus era un alieno, l’aveva conosciuto per ciò che era e, benchè nessuno l’obbligasse a farlo, aveva deciso di restare sulla Terra per difenderla anche a costo della sua stessa vita.
“Potevi andare dove avresti voluto col tuo mezzo: l’universo è pieno di stelle pacifiche e senza guerre, ma sei rimasto qui. Sei rimasto con me. Con noi. Te ne sono infinitamente grata”, gli disse Venusia fissandolo negli occhi tremanti di commozione.
Lui le prese entrambe le mani e le baciò con devozione e rispetto.
“Tu hai sempre capito tutto, mi sei sempre stata vicino, anche nei momenti più difficili, mai ti sei tirata indietro di fronte al pericolo. Venusia, tu sei la persona più importante della mia vita” le disse con calore, fissandola negli occhi.
E infine, fu naturale per loro conoscersi fino in fondo. Senza dirselo chiaramente, da tempo avevano progettato la loro prima notte d’amore in una stanza del Centro Ricerche, dato che spesso, per paura di un improvviso attacco veghiano, Venusia si fermava lì.

Ma i grandi avvenimenti della vita, specie quelli amorosi, sono molto più belli e sentiti se improvvisati, o meglio, lasciati nelle mani del fato, del destino, dallo svolgersi degli eventi.
La voce alta e minacciosa di Rigel che non voleva la figlia frequentasse quel ranchero, era da tempo immemore, un eco sempre più lontana e indistinta.
Anche suo padre aveva fatto un enorme passo di evoluzione dentro di sé, ed era stato fondamentale nell’insistere che la figlia partecipasse alla guerra contro Vega. La stimava molto e teneva alla sua realizzazione. Così era stato per Mizar, anche se in modo più impercettibile; lui era sempre stato molto più maturo per un ragazzino della sua età, e lo aveva dimostrato in varie circostanze.

Il giorno in cui Venusia aveva conosciuto la vera identità del ragazzo che amava, senza che lei lo sapesse davvero, era stata fondamentale perché lui in quel frangente riprendesse i sensi, si rialzasse dall’acqua, attaccasse il mostro per distruggerlo definitivamente. L’acqua: il punto debole di Goldrake.
Procton aveva visto giusto nel progettare il velivolo per Venusia: agganciandosi al robot, insieme potevano scendere negli abissi più profondi e attaccare il nemico senza paura.
E poi c’era la ferita mortale al braccio: ad ogni attacco, il giovane peggiorava sempre di più e lei lo sapeva. Taceva e soffriva in silenzio. Una notte, dopo una battaglia terribile contro un mostro veghiano, lei era rimasta al Centro. Actarus si era buttato sul divano quasi privo si sensi, lei si era messa di fianco a lui e aveva posato le sue fresche e giovani labbra sopra quella ferita febbricitante. Se il suo amore avesse potuto guarirlo… pensava. Non era forse così, quando da bambini si cadeva facendosi male? Il bacio della mamma sulla parte ferita guariva dolore e paura.

Il sole stava tramontando dietro una collina, e i suoi raggi, caldi come olio e dolci come l’infanzia, abbracciarono i due giovani che si accingevano a partire.
I loro occhi riflettevano ogni momento appena vissuto, si guardavano senza parlare.
Tornavano al ranch, al centro ricerche, alla loro casa, dai familiari, dagli amici. Sapevano bene, dentro il loro cuore, che niente e nessuno li avrebbe mai più divisi.



FINE

Edited by .Luce. - 17/1/2023, 11:11
 
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view post Posted on 10/12/2022, 13:52     +7   +1   -1
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Comm.Grand.Pres. della Girella

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Il racconto si svolge subito dopo l'ep. 5, "Una serata di gloria".

PROPOSTE


Doveva arrivare, prima o poi.
La busta dai bordi blu e rossi era la prima nella vaschetta portacorrispondenza della sua scrivania. Curioso come la grafia di Sayaka, così spigolosa, diventasse morbida e arrotondata quando si trattava di scrivere in caratteri latini.
Mr. Koji Kabuto,
Space Research Center…

Sfilò il temperino dalla tasca posteriore dei jeans e aprì con attenzione la lettera. Sulla velina quella scrittura innaturale riprendeva il suo familiare zigzag.

“Ciao Koji-kun, come va?
Hai pensato alla proposta della scorsa lettera? L’ingegner Watson ha insistito che ti scrivessi di nuovo anche se non hai ancora risposto…”

Nello scomparto inferiore della vaschetta, un’altra busta dai bordi blu e rossi e un’altra velina, letta e riletta. E nel cestino… no, la donna delle pulizie l’aveva svuotato. Chissà cosa aveva pensato nel vedere tutte quelle minute appallottolate: probabilmente che aveva un problema con la fidanzata. Magari fosse stato così semplice… Sayaka gli mancava, certo, ma in quei giorni non aveva avuto tempo di pensare a lei, non in quel senso. E poi “fidanzata”… non era niente di ufficiale, ecco.
La proposta.
La proposta non era di Sayaka, ma dell’ingegner Watson in persona. Gli proponeva di tornare a lavorare presso il laboratorio. Adesso il suo progetto di disco volante gli interessava?
Mi è toccato costruirlo a mie spese. Era il mio progetto di laurea, e dopo che ci avevo lavorato mesi mi vengono a dire che non rispondeva ai requisiti? Non ne avevano dati, di requisiti, a parte la velocità ultrasonica e la possibilità di trasportare più persone. “Date sfogo alla vostra creatività”, avevano detto: e il suo prototipo poteva avere due posti ed era il più veloce tra tutti quelli presentati – 4 Mach, qualcosa che finora era stato raggiunto solo dagli aerorazzi. Era sicuro che il TFO li avrebbe lasciati tutti senza parole…
“Ma che cos’è, un UFO?” aveva riso Gregory Lachlan quando aveva visto il progetto. No, un disco… un disco volante, come quelli che lo avevano fatto sognare da bambino. Ma questo era reale, velocissimo e anche dotato di armi, all’occorrenza.
“I razzetti… certo, puoi usarli per sparare agli alieni!” Lachlan sembrava strozzarsi dalle risate, i suoi amici facevano altrettanto, e Sayaka cercava di guardare da un’altra parte. Watson aveva interrotto l’increscioso siparietto appena un attimo prima che Koji stampasse un pugno sul muso di quell’idiota.
“La corsa allo spazio è finita, Kabuto” aveva commentato l’ingegnere, con quello che gli era sembrato un sospiro. “Con i sovietici, ormai, facciamo missioni congiunte. Abbiamo una guerra da vincere, e la vinceremo; ma non con le armi.” Aveva sollevato gli occhi dal progetto e con lo sguardo aveva abbracciato il laboratorio pieno di giovani scienziati. “Sarà la nostra superiorità tecnologica a schiacciare i comunisti."
Poi era passato a esaminare gli altri progetti.

“Il suo progetto è interessante, signor Kabuto – gli aveva fatto scrivere Watson dalla sua segretaria il giorno dopo – ma non riteniamo sia adatto alla realizzazione.”
Non adatto. Perché non andava a dirlo al figlio di Umon, che al suo piccolo disco aveva dovuto la salvezza in almeno un paio di occasioni? Per fortuna i fondi non gli mancavano: l’eredità di nonno Juzo gli aveva permesso di realizzare il prototipo, e ora poteva dimostrare che aveva ragione… no, in realtà non poteva. L’attacco degli alieni di Vega sul Giappone era strettamente top secret. Del resto, dove erano gli USA quando c’era bisogno di salvare la Terra dalle mire di conquista del Generale Inferno?
Quando il TFO si era sollevato nel cielo di Houston per partire alla volta del Centro Ricerche del prof. Umon, i suoi ex compagni di studi erano rimasti a bocca aperta, Sayaka glielo aveva confermato nella sua prima lettera. Tutti, anche Gregory, con cui il giorno della presentazione dei progetti aveva avuto un chiarimento appena fuori dall’ingresso del Watson Institute e che aveva sottovalutato l’efficacia delle arti marziali così ben padroneggiate da quel piccolo Jap, alto almeno otto pollici meno di lui.

Poche righe più sotto Sayaka aggiungeva che si stavano selezionando astronauti per la missione Skylab 5, se mai ci fosse stata; oppure per il nuovo progetto cui anche lui stava collaborando prima di decidere di partire senza terminare gli studi, la nuova frontiera delle missioni spaziali americane, una navetta spaziale riutilizzabile.

Il primo astronauta giapponese. Avrebbe potuto mostrarsi un degno membro della gloriosa dinastia dei Kabuto ed entrare nella storia… impossibile, gli americani non avrebbero mai concesso a uno straniero un ruolo di tale importanza – a un giapponese, poi. La guerra era finita da tempo, ma non tutti si fidavano dei “musi gialli”, se non a parole nei fatti. Sayaka e lui erano gli unici nel gruppo a non essere di nazionalità americana, non c’era nessun nero e l’unico asiatico presente, George Takei, era trattato con sufficienza dai giovani ingegneri bianchi, anche se già suo nonno era nato negli USA e il suo giapponese, che si sforzava di usare quando parlava con lui e con Sayaka, era pessimo. Ma allora, perché Watson aveva chiesto a Sayaka di insistere?

Aveva imparato molto al Watson Institute, senza dubbio. Aveva conoscenze molto più approfondite di quelle che si era fatto sul campo – quando aveva iniziato a pilotare Mazinga Z le sue nozioni di meccanica si limitavano a quanto serviva per far raggiungere velocità illegali alla sua motocicletta, e durante la guerra non aveva avuto tempo di affrontare uno studio sistematico. Senza quegli anni negli USA il TFO non avrebbe mai visto la luce. Riprese in mano la lettera.

“...Il Dr Watson mi chiede spesso tue notizie. Gli dispiace che una mente così brillante non sappia adattarsi al lavoro di squadra…”

Sbatté il palmo sulla scrivania, facendo volare per aria penne e matite. Questa, poi. Watson lo diceva spesso, ma lei lo sapeva che non era così. Avevano sempre lavorato in squadra. Lui, Sayaka, Boss. Anche quando erano andati ad aiutare Tetsuya…

“…e io sono costretta a dargli ragione. Tu non sai lavorare in squadra. Tu vuoi essere il leader di una squadra. Hai fatto lo stesso anche qui: hai lavorato da solo, e il tuo progetto era l’unico che non si raccordava con gli altri…”

Perché era il più innovativo, il più originale e creativo. Se vedessi cosa riesco a fare, qui, con il TFO…

“…ma riguardandolo, il Dr Watson e il comitato di valutazione hanno dovuto riconoscere che era il progetto più innovativo e originale tra quelli presentati. Credo che sia per questo che insistono tanto per il tuo ritorno. E poi, anche George ed io saremmo felici di riaverti con noi.”

Koji si grattò la nuca. Come, “George ed io”? In effetti, ora erano loro due gli unici asiatici dell’Istituto. E lei era l’unica straniera…

“Me l’hai scritto subito, che non ti trovi bene con 'quello spocchioso del figlio del direttore'. Forse perché è il figlio del capo e non ti riconosce come suo superiore? Il solito problema… ma sei là da così poco tempo che non se la prenderanno se dici loro che preferisci tornare negli USA. Troveranno certo un nuovo collaboratore. E qui tu potrai primeggiare.”

Tutta colpa di quella stupida prima lettera. Che imbecille che era stato a scriverla, senza aspettare di sbollire la rabbia, la sera che aveva conosciuto Daisuke – prima di sapere. Aveva sperato che andasse perduta, ma le poste funzionano benissimo proprio quando non dovrebbero. Ora tutto era diverso, ma non gli era permesso spiegarle il perché. C’era una nuova guerra in corso, e lui doveva difendere la Terra… no, doveva aiutare a difendere la Terra.
Strinse i denti: doveva farsene una ragione. Con Grendizer in campo, l’unico ruolo possibile per lui e il TFO era quello di gregario, sempre che Daisuke glielo permettesse. Ma se Grendizer non ci fosse stato… meglio non pensarci.

La luce rossa dell’interfono si accese. “Koji, puoi raggiungermi nel mio ufficio?”
“Subito, prof. Umon.”

“Sono stanca di parlare solo inglese.”

E questo è il massimo che Sayaka può fare per dirmi che le manco. Ridacchiò. Certo che se l’alternativa a lui era George…
Posò la lettera: era alle ultime righe, rimanevano solo i saluti da porgere a tutti, anche a suo padre e a Shiro quando li avesse incontrati.


“Eccomi, professore… dov’è Daisuke?”
“Alla fattoria.” In piedi davanti alla sua scrivania, Umon si rigirava la pipa tra le mani.
“L’avrai capito… combattere contro Vega lo appassiona molto meno che occuparsi degli animali. Ma, se necessario, posso contare sul fatto che sarà qui in un istante.”
Koji abbassò lo sguardo. Il giorno prima lui era stato molto meno veloce nel rispondere ai richiami del Centro Ricerche. “Professore…”
“Ho appena ricevuto una telefonata del professor Yumi, che mi riferisce della sua corrispondenza con l’ingegner Watson di Houston. Mi ha detto che l’ingegnere sarebbe disposto a riaverti nella sua squadra.”
Il professore battè con delicatezza il fornelletto della pipa sul bordo della sua scrivania, poi si chinò per cercare il tabacco nel cassetto.
“Hikaru mi ha detto che se la gara di volo non fosse stata interrotta dall’attacco di Vega tu l’avresti sicuramente vinta. E poi… sei salito su un minidisco di Vega e sei riuscito a pilotarlo. Non credo ci siano molti altri piloti al tuo livello.”
Alzò la testa verso Koji e lo guardò negli occhi. “Se ne è reso conto anche l’ingegner Watson. Saprai meglio di me quali sono i progetti su cui stanno lavorando a Houston… è stato contattato dal prof. Pepin, che cerca uomini per le nuove missioni spaziali. Gli ha detto che è di persone come te che hanno bisogno. Capaci di pensare velocemente e risolvere situazioni difficili usando non solo le competenze, ma l’istinto.”

Koji era senza parole. Pepin, il direttore del Lunar and Planetary Institute. Come dire, la NASA. Il primo astronauta giapponese.

“Visto il tuo curriculum, sarebbero pronti a passar sopra a qualche piccola incomprensione che pare si sia verificata con i tuoi colleghi… potresti anche avere una corsia preferenziale per ottenere la cittadinanza americana. La tua carriera di astronauta sarebbe assicurata.”
Esaminò nuovamente la pipa e sorrise. “Io non posso che confermare la tua abilità. Sei riuscito ad essere di grande aiuto a Daisuke in situazioni difficili.”

Cosa gli aveva scritto Sayaka? “Tu non sai lavorare in squadra.”

Con delicatezza, Umon pigiò il tabacco nel fornelletto. “Daisuke non si può ancora considerare un pilota esperto, ma Grendizer è potentissimo. Posso capire che per te guidare un mezzo d’appoggio quando per anni sei stato il punto di forza della tua squadra sia frustrante. E capisco ancora di più che tu sia stanco di combattere.”

“Tu vuoi essere il leader di una squadra”... no, non era vero. Non più. Le avrebbe dimostrato che era cambiato… no, lei non l'avrebbe saputo. Lo avrebbe dimostrato a sé stesso.

Koji prese fiato. Doveva trovare le parole giuste. “Il TFO è sicuramente inferiore a Grendizer, ma vedo che mi considerate un pilota di buon livello.”
Umon annuì mentre avvicinava l’accendino alla pipa.
“E, non per mia scelta, ho una certa esperienza di guerra… forse potrei essere più utile qui che a Houston.”
Umon si sfilò la pipa dalle labbra.
“L’occasione che ti propone la NASA è di quelle che capitano a pochi. Non si ripeterà.”
Koji si appoggiò con le due mani sulla scrivania. “Me ne rendo conto professore, ma… ma a cosa servirebbe una stazione spaziale orbitante se gli alieni conquistassero la Terra?”
“Non la conquisteranno, finché Grendizer combatte per difenderla.”
“Ma io posso servire… io posso dare una mano.”
Umon non replicò; rimise in bocca la pipa e aspirò piano. Il profumo del tabacco si diffuse nella stanza.
Koji sentì che le guance gli si arrossavano. “Sono stato un incosciente ieri. Non ho dato retta alle chiamate e ho messo in pericolo i miei amici… e anche Grendizer. Non succederà più.”
“Devo dire al professor Yumi che rifiuti l’offerta?”
“Gli dica che sono molto onorato dell’offerta, ma che il mio posto è qui, al Centro Ricerche. Lo sarà finché Vega non sarà sconfitto.”
Umon abbassò appena il capo. “D’accordo, allora” tese la mano.
Koji la strinse con forza.
“E ora, professore, se non le dispiace, dovrei andare a scrivere una lettera.”

Edited by shooting_star - 15/2/2023, 21:20
 
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view post Posted on 13/12/2022, 17:18     +7   +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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UN SOLDATO CHIAMATO RE

Il pianeta è assediato da creature polimorfe, le strade sono piene di cadaveri e i pochi superstiti sono arroccati nei bastioni che ancora reggono all’assalto del nemico.
Il palazzo del governo è accerchiato e le forze di difesa fanno quello possono per tenere testa al nemico.
Un’imponente capitano delle guardie, dagli occhi rossi e dalla pelle arancione, si tiene il braccio ferito lungo il corpo, mentre il suo compagno continua a fare fuoco contro il nemico.
Il gigante arancione, dall’aria rassegnata, si chiede che senso abbia continuare e se non sia meglio accettare la propria fine. Il compagno, più anziano, robusto e dalla pelle verde/grigiastra lo rimprovera ricordandogli che il loro compito come soldati preposti alla difesa del pianeta è quello di combattere fino all’ultimo, anche se rimanesse uno solo di loro in vita, anche se dovesse trascinarsi nel proprio sangue.
L’unica possibilità di salvarsi dagli invasori è attivare il grande faro centrale e per farlo bisogna raggiungere la sala di comando in fondo a quel dannato corridoio infestato da quelle mostruose creature.
Il gigante appare rinfrancato dalle parole dell’amico e impugna saldamente il fucile con il braccio sano, facendo fuoco e spazzando via alcune delle creature che si stavano avventando sul collega.
I due soldati si fanno quindi strada verso la sala di controllo.
Quando la strada sembra sgombra e il corridoio è ormai tappezzato con i cadaveri degli invasori, un’amara sorpresa attende i due compagni : quei dannati esseri polimorfi hanno acquisito la capacità di fondersi non solo con gli esseri viventi, ma anche con le macchine!
Il sistema di sicurezza del corridoio centrale è ormai infettato ed è diventato un tutt’uno con i mostri, manca poco perché arrivino a fondersi anche con il sistema di controllo e con il grande faro; bisogna attivarlo prima che sia troppo tardi!
Il sistema di difesa laser del corridoio scarica i suoi raggi contro i due soldati ferendoli in più punti. Il gigante cade in ginocchio e sente ormai prossima la sua fine. I suoi pensieri vanno ai ricordi di infanzia, alla spuma verde del mare che amava tanto vedere infrangersi sugli scogli di carbone e alla sua amata….quella ragazza tanto bella proveniente da un altro pianeta, con la pelle pallida e i capelli rosso rubino.
Proprio mentre è in attesa del colpo fatale, il gigante arancione avverte un’ombra che lo copre : si tratta del suo compagno anziano che gli sta facendo scudo con il suo corpo, si sta sacrificando perché viva, perché raggiunga il faro e debelli la minaccia. Il gigante distoglie lo sguardo e trattiene le lacrime mentre aggira l’amico che sta finendo di essere crivellato dai copi del sistema di sicurezza.
Il cadavere dell’anziano e valoroso soldato cade a terra in una pozza di sangue mentre l’amico riesce a forzare la porta e a penetrare nella sala di comando.
Le maledette creature polimorfe continuano a ghermire il gigante fino a soffocarlo, mentre questo tende la propria mano verso la leva di accensione del faro. La stringe con tutte le proprie forze e l’abbassa.
Un grande fascio di luce viene generato dal faro centrale spazzando via tutti gli invasori che si dissolvono nel suo bianco bagliore.
Il gigante arancione apre a stento gli occhi e mette a fuoco nel mare di luce una figura che prende mano mano forma, la figura di una donna, una donna che somiglia tanto alla ragazza che ama.
L’uomo ha già visto la figura di quella donna : si tratta della divinità protettrice del pianeta. Che si tratti di un’allucinazione?
La Dea rivolge parole di ringraziamento al coraggioso soldato che ha salvato il pianeta e afferma che ora spetta a lui ricostruire il futuro del suo mondo, diventerà re e costruirà per il pianeta Vega un domani radioso e pieno di speranza!
Detto questo la figura femminile scompare con il progressivo affievolirsi della luce emessa dal faro centrale

---------------------------------------------------------------------

Tanti anni sono passati da quel giorno. Re Vega con i suoi occhi rossi osserva gli ultimi istanti del proprio pianeta sull’orlo del collasso a causa delle radiazioni di vegatron.
I pochi membri di spicco della nobiltà e dell’esercito sono pronti a mettersi in salvo sulle navi preposte all’esodo, navi le cui porte sono chiuse ai comuni cittadini che cercano disperatamente di raggiungerle e che vengono crivellati dai colpi dei soldati.
Tra se e se Re Vega afferma che la dea aveva ragione : lui aveva costruito un domani radioso per il proprio pianeta sottomettendone altri e ponendolo a capo di un vastissimo impero intergalattico. Anche l’ordine cosmico invidia il potere di Vega e per questo ha provocato quella catastrofe, catastrofe che nessun esercito di nessun pianeta sarebbe mai in stato grado di provocare.
Il pianeta Vega, il grande pianeta Vega non può che collassare dall'interno! E lui il grande sovrano, il grande Re Vega non può che sopravvivere al suo stesso pianeta! A tanto arriva la grandezza a cui è stato destinato
 
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view post Posted on 17/12/2022, 12:16     +6   +1   -1
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Competizione

Zuril si bloccò in mezzo al corridoio. Era stato un boato? No, forse un ruggito. Il computer oculare non riusciva ad identificare con chiarezza il suono. Riprese a camminare ma si bloccò una seconda volta: stesso rumore ma più forte, seguito da un silenzio irreale. Riprese a camminare con passo più spedito. Di nuovo quel rumore seguito stavolta da… applausi? Poi un brusio sommesso. I rumori provenivano dalla sala controllo. Si mise a correre e all’apertura delle porte si trovò di fronte una stanza gremita di soldati: non sarebbe potuto cadere uno spillo senza colpire qualcuno. Sui monitor un numero imprecisato di energumeni con maglietta a righe che se le davano di santa ragione litigandosi un oggetto oblungo di colore marrone.
“Meta!”
All’esclamazione a ottantamila decibel Zuril non poté impedirsi di fare un passo indietro. Tra le teste dei soldati scorse Hydargos e Gandal che si abbracciavano.
Era sul punto di ruggire il suo disprezzo quando il computer oculare prese a lampeggiare e un sorriso maligno si stampò sul volto del ministro delle scienze.

“Actarus! Actarus! Guarda cosa ho trovato sulla strada!”
Mizar portò al suo amico un oggetto oblungo di colore marrone.
“Guarda! Un pallone da rugby!”
Il giovane guardò con affetto il suo piccolo amico. Gli si stringeva il cuore a doverlo deludere, ma non aveva scelta: la prudenza prima di tutto.
Si accovacciò.
“È molto bella Mizar.” Fece una pausa.”Sai che non devi raccogliere nulla per strada, vero?”
“Ma Actarus, è solo un pallone…”
“Potrebbe… ma potrebbe essere qualcosa di pericoloso. È successo già tante volte.”
Il bambino guardò per l’ultima volta il suo bottino poi lo consegnò al suo amico.
“Hai ragione.”
Actarus sorrise comprensivo. Si alzò, lasciò cadere il pallone in terra e lo calciò oltre i pali che reggevano l’insegna con il nome del ranch.
“Meta!” Esclamò Mizar con entusiasmo. “Saresti un asso come giocatore di rugby!”

Due moto si fermarono sgommando. I due centauri si tolsero il casco.
“Ehi Venusia! Mizar ha perso qualcosa? L’ho trovato per la strada.” Disse Alcor allungando un pallone da rugby verso la sua amica. La giovane si avvicinò alle motociclette.
“Questo non è di mio fratello.”
“Allora tanti auguri di buon compleanno in anticipo!” Cinguettò la ragazza sulla seconda moto.
“Siete peggio dei bambini! Alcor, Maria, lo sapete che non dovete raccogliere le cose in giro, e soprattutto non dovete portarle a casa.”
Alcor si passò la mano tra i capelli.
“Sei paranoica, Venusia, è solo un pallone!”
“Davvero? Come era solo un piccione, solo Stella, solo… quanto vuoi che vada avanti?”
La brunetta appoggiò il pallone in terra e con un calcio la scagliò oltre i pali che reggevano l’insegna con il nome del ranch.
“Meta!” Esclamò Alcor alzando le braccia al cielo con i pugni chiusi. “Non sapevo che fossi così brava!”

Il primo ad alzarsi da tavola e correre fuori era stato Mizar, seguito a ruota da Alcor e Maria. Tutti e tre si fermarono a contemplare il pallone al centro dell’aia.
“Che ci fa qui? Actarus lo aveva calciato fuori.” Mizar, con le mani nelle tasche, oscillava sui piedi. Alcor si grattò la testa e aggiunse: “Lo abbiamo riportato indietro noi, ma tua sorella l’ha ricalciato fuori.”
“E dal momento che non è dotato di piedi, qualcuno deve averlo riportato qui.” Finì Maria con un tono da saputella.
“Ancora quel pallone? Pensavo di essere stata chiara!”
I tre si girarono con espressione colpevole: la piccola ed esile Venusia sapeva essere temibile quando si arrabbiava, e dietro di lei c’era un accigliato Actarus… un molto accigliato Actarus.
“Fratello, ti giuro che non lo abbiamo riportato noi!”
“Sorellina è vero! L’ho trovato qui quando sono uscito!”
Alcor non smetteva di annuire con l’espressione più sincera e onesta che aveva in repertorio.
Venusia incrociò le braccia. Non era affatto un buon segno.
Alcor si sbrigò a calciare nuovamente il pallone oltre i pali che… eccetera.
I tre guardarono i due con espressione angelica. I due sorrisero di rimando come si fa con i bravi bambini.

POF!
Cinque facce esterrefatte fissarono il pallone che era ripiombato al centro dell’aia.
Silenzio. Una leggera brezza alzava la polvere dal terreno. Un cespuglio rotolante si sbrigò a togliersi di mezzo perché sapeva di non essere a casa sua. Oltre i pali che… eccetera, erano spuntati quattro personaggi inquietanti: uno altissimo e blu, Gandal; uno grigio topo con la testa a punta, Hydargos; un altro bicolore con le orecchie a sventola e un gran paio di corna sul cranio, Barendos; l’ultimo con un uccello sulla spalla o la spalla a forma di uccello e corna ad ornare il capo, Dantus. I quattro figuri sfoggiavano sorrisi malevoli e beffardi.
Righel si sbrigò a salire sulla torretta di osservazione dove era posizionata la sua mitragliatrice senza proiettili.

Actarus si accovacciò leggermente e i suoi amici si avvicinarono a semicerchio. A bassa voce commentò: “Avevamo ragione: quel pallone deve essere un’arma dei veghiani. Dobbiamo evitare che esploda vicino casa e vicino a noi. Dobbiamo… “
Non riuscì a finire la frase perché all’urlo “All’attacco!” gli avversari avevano varcato di corsa i pali che… eccetera e avevano gli occhi puntati sul pallone. Sempre il primo a reagire d’istinto, Alcor si appropriò dell’oggetto conteso e iniziò a correre nella direzione opposta ai veghiani mentre i suoi compagni si allontanavano a raggiera.
Dal suo punto di osservazione privilegiato, Righel iniziò a parlare nel megafono.
“Tutti contro Alcor. Corri, ragazzo, corri! Passaggio indietro ad Actarus che viene bloccato dopo pochi metri da una spallata di uno di quelli con le corna. Prima di cadere lancia la palla a Venusia che cambia direzione ma viene afferrata… ehi metti giù mia figlia matitone! Ora vengo lì e… bravo Mizar! Un bel morso sul polpaccio! E mentre quello cerca di liberarsi del mio piccino (puoi staccare i denti ora, Mizar), il pallone passa a Maria che… Fallo! Ennesimo fallo! Quello blu non può afferrarle i capelli! Meravigliosa capocciata di nuca sul naso dello spaziale da parte di Maria che si gira e… ahhh! Quel calcio dove si sente meglio fa male! E che succede? Una donna nella testa! Amico devi avere una vita difficile! La tizia afferra ora Maria per il collo e il pallone cade in terra. Un calcio congiunto nelle reni da parte di Venusia e Alcor costringe la donna a mollare la presa e il pallone viene calciato inavvertitamente lontano. I due cornuti si buttano per prenderlo e… Bum! Craniata e incastro di palchi! Applauso per il piccolo Mizar che si insinua sotto il groviglio, afferra il pallone e corre verso i pali! Corri figliolo che Alcor e Actarus ti guardano le spalle! No! Fallo! Fallo! Dal nulla sono spuntati quattro tizi incappucciati che sono saltati sopra al mio bambino! Mischia! Mischia!”
Righel sulla torretta saltava su e giù agitatissimo.
“Che fate, voi due rammolliti! Tiratelo fuori da lì sotto! Ah eccolo! Quei cappucci vi devono limitare molto la vista se mentre frugate nel mucchio Mizar ha passato la palla ad Alcor ed è stato estratto illeso da Actarus. Il gioco riprende mentre gli invasori di campo cercano di sciogliersi. Alcor passa la palla a Maria che la passa a Venusia che viene sgambettata da quello con la testa a punta! Prima di cadere mia figlia lancia il pallone ad Alcor che… BOOM! Il pallone supera i pali che… eccetera e entra nel disco degli spaziali come un razzo! Meta! Meta! Un calcio poderoso. Chissà che danni avrà fatto! Buu! Andate via spaziali!”
Mogi, stanchi e doloranti, i quattro veghiani raccolsero il nodo dei soldati incappucciati, salirono sull’astronave malconcia e partirono.
Sulla base Skarmoon Zuril sedeva con la mano sul volto, il computer oculare del tutto inerte.

Al centro ricerche spaziali il professor Procton batté il palmo della mano sul bracciolo della poltrona. Un cicalino indicò una comunicazione in entrata.
“Aveva ragione professore: ordigni marroni e ovali semisepolti e sparsi intorno al centro. Non li avremmo mai individuati se non avessimo saputo cosa cercare.”
“Ottimo lavoro ragazzi! Raccoglieteli con estrema cautela e fateli brillare in sicurezza.”
Il professore mise le mani dietro la testa e inclinò la poltrona all’indietro con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Epilogo numero 1
Vega batteva con impazienza in piede in terra. Al suo cospetto i suoi quattro uomini migliori, si fa per dire, incerottati e fasciati.
“Siete una vergogna!” Ruggì il sovrano. “Se si venisse a sapere che avete sabotato in maniera così plateale il piano di un vostro collega… siete una vergogna!”
Al fianco di re Vega, Zuril sembrava impassibile.
“Se poi si venisse a sapere che avete giocato una partita così vergognosa, che avete perso contro due fleediani, due terrestri e… un bambino!”
Hydargos trasalì: ancora sentiva i dentini aguzzi di quell’essere detestabile… e poco sportivo sul polpaccio.
“Siete tutti consegnati! Palestra e allenamenti! Alla prossima partita li dovrete stracciare!”
Il computer oculare di Zuril si spense.

Epilogo numero 2
“Ma, alla fine, quello era solo un pallone o un ordigno difettoso?” Chiese Alcor mentre stringeva un bullone alla moto.
“Credo che non lo sapremo mai con sicurezza.” Rispose Actarus mentre strigliava un cavallo. I due si bloccarono con gli attrezzi a mezz’aria per osservare il cespuglio rotolante che si affannava a cercare l’uscita da questa fan fiction.

Se volete chiedere al cespugnio rotolante come sia finito in questa ff (posto che lo sappia), potete uare questo link
 
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view post Posted on 18/12/2022, 21:01     +6   +1   -1
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Ambientazione: Goldrake, dopo l'arrivo di Maria. Situazione inventata.
Personaggi: Actarus e Venusia. Breve comparsata di Alcor, Maria e Procton.
Genere: commedia, introspettivo, romantico.
Rating: verde (per tutti.)
Avvertimento: quasi sicuramente OOC.
(N.B.: ho usato i nomi del doppiaggio storico, a parte Duke, ché Goldrake riferito ad Actarus proprio non se pò sentì)


DI SCHIAFFI E PUNIZIONI
(Ovvero, come inculcare lo spirito di squadra in una testa dura)




Venusia scese dal Delfino Spaziale, atterrato nel suo hangar già da un po’.
Aveva avuto bisogno di stare diversi minuti a bordo, lì da sola, a metabolizzare l’adrenalina che ancora, a tratti, le scorreva nelle vene, pungendogliele dall'interno, fino ad arrivare, come milioni di aghi incandescenti, fin sotto la pelle.
Si diresse all'ascensore che la portò giù, e scelse poi il corridoio che conduceva all'infermeria di primo soccorso.
Aveva una piccola ferita di traverso sul naso, che però sanguinava copiosamente e andava medicata.
Ma, soprattutto, aveva un diavolo per capello.
Con un gesto brusco, che tradiva la sua inquietudine, si tolse il casco e si scompigliò la capigliatura scura, come se, così facendo, potesse mettere a tacere le diaboliche creature del famoso modo di dire.
Era stufa e arcistufa dei modi autoritari e maschilisti del loro leader.
Okay, era al comando del mezzo più potente che la Terra avesse a disposizione per difendersi da Vega.
Okay, era il più grande e il più esperto dei quattro.
Ed era un principe, abituato a farsi rispettare ed obbedire: okay anche questo!
Ma a tutto c’era un limite: ora basta!
Sbucò nel piccolo atrio davanti agli ambulatori medici e si bloccò, vedendolo lì, arrivato anche lui rapidamente, probabilmente preoccupato per Maria, tanto che non era nemmeno rientrato nei suoi panni di ogni giorno e indossava ancora la tuta rossa e nera con le ali azzurre sul petto.
Non le capitava spesso di vederlo in tenuta da combattimento, ma senza casco, e lei era sempre consapevole dell’effetto che le faceva, quando le si parava di fronte in quel modo, bello e imponente... anche se le cose ormai erano cambiate, e lei aveva imparato a non farci più molto caso.
E poi ora... ora era troppo arrabbiata, tanto da non sentire nemmeno la stanchezza e il dolore al naso, figurarsi subire il fascino alieno dei suoi occhi blu!
Lo raggiunse a passo di carica, gettando un’occhiata di sguincio ad Alcor che si teneva il braccio sinistro contuso, e a Procton che sostava sulla porta aperta dell’ambulatorio, intento a parlare col medico delle condizioni di Maria, la quale, a quanto pareva, era quella che stava meglio di tutti, nonostante il rocambolesco atterraggio di fortuna a cui era stata costretta con la Trivella Spaziale.
Actarus si volse verso Venusia, che ancora avanzava rapida e decisa, e per un secondo la squadrò con un’espressione indecifrabile, nella quale si davano battaglia la rabbia e la preoccupazione, alla vista del suo volto insanguinato.
Anche lui sfoggiava un bello sbaffo di sangue sulla guancia, colato da un piccolo taglio su un lato della fronte. Per un surreale attimo, Venusia si chiese se i loro caschi servissero realmente a qualcosa o se, in realtà, fossero solo dei begli accessori che complicavano loro la vita.
Il giovane mosse qualche passo deciso verso di lei, come se volesse rimproverarla o, peggio, prenderla a schiaffi; ma la ragazza non si fece prendere in contropiede. Ah, beh, un altro schiaffo da lui, anche no, eh?!
La sua mano interruppe qualunque gesto o parola stesse per manifestarsi da parte di Actarus.
Ciaff!
Il palmo di Venusia si abbatté con violenza tra la guancia e le labbra del principe di Fleed, con uno schiocco tale da lasciare tutti allibiti.
Actarus incassò con una calma olimpica: in silenzio, si passò il dorso della mano sul volto e la fulminò con uno sguardo tra l’interrogativo e l’infuriato.
– Se stai pensando di tirarmelo indietro, frena alla svelta: torneremmo in disparità. Te lo dovevo da un pezzo, e lo sai benissimo! – tuonò Venusia.
Gli altri – compresa Maria che era apparsa sulla soglia dell’ambulatorio fresca come un quarto di pollo – li guardarono allibiti: nessuno sapeva del ceffone che Actarus aveva rifilato a una Venusia sull’orlo di una crisi isterica, il giorno in cui aveva scoperto che lui era il pilota di Goldrake, nonché un principe alieno.
– Ma cosa diavolo ti è preso, sei impazzita? – chiese Actarus, alterato.
– Cosa mi è preso? Cosa mi è preso? Hai un bel coraggio, a chiederlo! – lo accusò, puntandogli un dito contro il petto – Mi è preso che è ora che la fai finita, col tuo atteggiamento autoritario e da grande capo! Tu... tu...! Non ti permettere più, mai più, di ordinarmi, mentre ti sto salvando la vita, di andarmene dalla battaglia!
– Ma ti rendi conto di cosa hai fatto?
– Poco ma sicuro, che mi rendo conto! Ho protetto te e Alcor!
– E farti mangiare dal mostro ti è sembrata una soluzione? Un po’ drastica, non trovi?
– Dovevo distrarlo, per toglierlo di dosso a te e Alcor! Eravate schiacciati sotto di lui, immobilizzati sulla schiena, senza armi disponibili! Vi stava massacrando, e basta guardare come è ridotto il Goldrake 2! L’unico modo è stato infilarmi nella sua bocca e sparare! C’ero solo io, lì, che potesse fare qualcosa, in quel momento, per distogliere il mostro da voi due! Ha funzionato, no? Se avessi obbedito al tuo ordine, e me ne fossi vigliaccamente andata, voi due ora sareste cotti al forno come due tacchini!
– Non esagerare, dai – intervenne Maria – Se la sarebbero cavata, non sono due ragazzetti alle prime armi!
Venusia si rivolse alla giovane compagna di battaglia con tono alquanto disturbato:
– No, quella sei tu, infatti! Ma che problemi avete, voi della casata di Fleed? Ce la fate ad arrendervi all’idea di aver bisogno degli altri, qualche volta?
– Sapete, Venusia non ha tutti i torti... – disse Alcor, in un tono stranamente pacato data la sua indole solitamente irruenta.
– Zitto! – lo interruppe Venusia, puntandogli un indice contro – Che non verrai da Fleed, ma quanto a deliri di machismo e onnipotenza, non sei scarso neanche te!
– Basta, Venusia!
L’esortazione di Actarus la mandò ancor più fuori dai gangheri.
– Altrimenti cosa fai? Mi ordini di andare in camera mia? Mi dai un altro ceffone? Prego, accomodati! Hai visto come faccio presto a tornare in pari!
Procton interruppe quel colorito scambio di battute pungenti invitando la ragazza, in tono severo, nell’ambulatorio per farsi visitare dal medico. Altrettanto severa fu l’occhiata che lo scienziato fece scivolare, silenziosamente, sugli altri tre, che furono zittiti all'istante.
Con un ultimo sguardo, che mandava saette verso i suoi compagni, Venusia obbedì e, con passo rigido e impettito, si diresse a farsi medicare.

***



Il naso le bruciava.
Ma ora che era stata medicata e aveva fatto una doccia rigenerante, con addosso una camicetta rossa pulita e una gonna corta e sportiva, Venusia si sentiva rinata.
Si affacciò al parapetto della terrazza del centro, sperando che la vista della notte estiva la rasserenasse un po’; la brezza tiepida le accarezzò le guance accaldate, ed effettivamente cominciò a calmarsi.
Il suono dell’incedere alle sue spalle, però, non contribuì ad accelerare il processo, anzi…
Dio, no, non aveva voglia di discutere ancora, non con lui; ma qualcosa le suggerì che non ci sarebbe stato scampo.
Allungò appena lo sguardo, con la coda dell’occhio, quando Actarus si fermò al suo fianco, poi tornò a guardare davanti a sé.
– Scusami.
Ecco! L’ultima parola che si sarebbe aspettata da quell’orgoglioso, dannato fleediano guerriero... che però in quel momento vestiva i panni dell’umile contadino terrestre: un paio di jeans e una camicia azzurro chiaro col colletto alla coreana slacciato, lo avevano nuovamente trasformato nel giovane che aveva conosciuto tanto tempo prima. Erano accadute tante cose, da allora: lei era cambiata, era cresciuta e maturata, e non solo in senso fisico; tuttavia, c’erano momenti in cui aveva la sensazione che lui continuasse a vederla come la ragazzetta ingenua e sprovveduta che era all’epoca.
Dal canto suo, spesso faticava ancora a realizzare che questo ragazzo di fronte a lei, dall’aspetto semplice – che la piccola medicazione, a lato di un folto sopracciglio, rendeva ancora più normale e umano – e il duro e determinato pilota di Goldrake, nonché principe addirittura di un altro pianeta, fossero la stessa persona.
In ogni caso, non gli avrebbe permesso di sminuire le sue capacità ancora una volta: alla prima parola di traverso lo avrebbe piantato lì e se ne sarebbe andata a dormire.
– Ammetto che non me le aspettavo, ma non saranno delle scuse a blandirmi, e lo sai. Credevo che l’argomento “Venusia che combatte” fosse ormai esaurito da un pezzo. Mi pareva lo avessi accettato, e che non sarebbe più stato necessario parlarne, soprattutto da quando hai ritrovato Maria e anche lei è diventata parte del nostro team.
– Lo so, Venusia… Anche lo schiaffo… me lo meritavo, in fondo. Me lo dovevi da quel giorno, hai ragione.
– Certo che ho ragione! Sono stanca di venir trattata, da te, diversamente che da Maria e Alcor, come se io valessi di meno! Non sono diversa da loro, e te l’ho dimostrato più di una volta, anche oggi! Tu sei… sei coraggioso, intelligente e sensibile: non mi capacito di come tu non riesca, o non voglia, capire una cosa tanto semplice. Io, te e quegli altri due scapestrati che amo come fratelli, siamo una squadra! Una squadra, capito? Tu proteggi noi, noi proteggiamo te, e ciascuno a vicenda. Tutti per uno e uno per tutti, come i moschettieri!
Actarus la osservò in silenzio, senza ribattere; ribadirle che aveva ragione avrebbe avuto poco senso, ma era stato più forte di lui, urlarle di andarsene.
Lei, intanto, proseguì imperterrita:
– Persino mio padre e mio fratello sono fieri di me! Perché tu non riesci ad esserlo? Perché è così difficile tirare fuori un “Brava, Venusia!” o un “Grazie, mi hai salvato la vita?” Che ci piaccia o no, è così: è la nostra missione, ho imparato a convivere con il fatto che tutti e quattro potremmo morire. Perché io ci riesco e tu no? Sono stanca di sentirmi sminuita in questo modo, come se tu non ti fidassi di ciò che sono in grado di fare. È un discorso vecchio, comunque…
Alterata, delusa, Venusia gli voltò la schiena per rientrare, per guadagnare la tranquillità della sua stanza.
– Sono stanca, vado a dormire. Buonanotte.
Lui si affrettò a seguirla.
– Ti accompagno.
– Se proprio vuoi… Duke – fu l’indifferente risposta.
– Duke? Ma stai scherzando? Quando scopristi chi sono, mi dicesti che per te sarei stato sempre Actarus!
– Sì, beh… le cose cambiano, nella vita: io, tu… i nostri ruoli… Non sono più una ragazzina romantica. Sono finiti da un po’, i tempi della mia cotta adolescenziale: non mi metti più soggezione.
Il silenzio che li accompagnò fino alla porta della camera della ragazza fu, inaspettatamente, rotto proprio da Actarus.
– Tu non sai come mi sono sentito quando ho visto il Delfino Spaziale, con te dentro, infilarsi nella bocca di quel mostro – disse in un tono sommesso che la stupì, ma a cui fece eco, al contrario, in modo deciso e vivace:
– Scommettiamo di sì? Ti sarai sentito più o meno come mi sento io, ogni volta, dal giorno in cui ho scoperto chi sei, quando vedo Goldrake rischiare, con te dentro, ad ogni attacco veghiano. Ho scelto di combattere perché il destino mi ha dato l’opportunità, un mezzo da battaglia e anche le capacità per farlo, esattamente come te! Che persona sarei, se mi tirassi indietro? Non sono una codarda, e non sarai tu a farmi passare per tale! Non l’ho certo fatto per farmi bella ai tuoi occhi; tanto… ho sempre saputo che non sarebbe servito. Quello che dovevo dirti te l’ho detto già oggi pomeriggio, non ho altro da aggiungere.
Era vero, le cose erano cambiate su molti fronti, lo sapeva anche lui. Venusia aveva ragione, ma sentirselo dire così a brutto muso gli suonò malissimo, e fece sentire lui, per un attimo, terribilmente svilito, fin troppo consapevole dei propri limiti. Doveva assolutamente fare qualcosa per ristabilire lo status quo.
Lanciò un rapidissimo sguardo attorno, per assicurarsi che non ci fosse nessuno, poi prese il viso della ragazza tra le mani e lo accostò bruscamente al suo: un attimo dopo le loro labbra erano fuse in un bacio bruciante che tolse il respiro ad entrambi.
Venusia rimase per un istante con gli occhi spalancati, senza vedere nulla… poi abbassò le palpebre e lasciò che tutto andasse come doveva andare: i cuori impazzirono, il sangue diventò incandescente e i loro corpi quasi cozzarono uno contro l’altro, nella frenesia con cui si strinsero a vicenda fra le braccia.
Ci volle un po’ prima che si separassero, con lentezza, ansanti e un po’imbarazzati, restando allacciati, con le fronti appoggiate e gli occhi chiusi.
Riaprirono gli occhi lentamente, Venusia con le labbra che tremavano, ancora umide di quel bacio che, davvero, in quel frangente non si sarebbe mai aspettata.
– Mai, mai nella vita, potrei anche solo pensare che tu sia una vigliacca, te lo giuro… Mi perdoni? – le chiese quindi vagamente ansioso, con gli occhi luccicanti come vetro, di quel blu cobalto che Venusia non aveva mai visto in nessun altro.
Le sfuggì un mezzo sorriso vagamente furbetto e si sforzò di ritrovare la lucidità, insieme a una buona dose di determinazione e malizia: neanche per sogno si sarebbe lasciata ridurre a una gelatina tremolante da un bacio!
– Promettimi che non lo farai più! Che non mi ordinerai mai più, di lasciare vigliaccamente il campo di battaglia! Che lascerai prendere a me le decisioni necessarie e che mi competono, a seconda del momento e dell’emergenza!
– Prometto… che ci proverò…
– Risposta sbagliata, bel principe. A questo punto ci vorrà ben altro che un bacio, per avere il mio perdono.
Actarus accennò un piccolo sorriso, quasi malandrino, e fece per baciarla di nuovo, allungando una mano sulla porta accostata e sospingendo dentro la ragazza.
Si ritrovò con una mano di lei puntata contro il torace, gli occhi scuri due lame taglienti, le labbra lucide leggermente sollevate in un’espressione un po’ beffarda.
– Non hai capito bene, amore mio: intendevo che questa notte dormirai in camera tua! Hai bisogno di meditare su questa cosa, e lo farai meglio in solitudine. Senza… distrazioni, non so se mi spiego.
– Ma…
Ma niente! Non sono una fanciullina indifesa: riprenderai il tuo posto al mio fianco, quando smetterai di fare il capo comandone e avrai imparato a considerarmi la tua compagna anche in battaglia e non solo nel nostro letto. Sono stata chiara?
Senza aggiungere altro, Venusia fece un passo indietro, entrando in camera e chiudendogli letteralmente la porta in faccia, non prima di avergli stampato un bacetto sulle labbra e averlo lasciato lì, basito, sulla soglia.
All’indomito e coraggioso principe di Fleed non restò che prendere atto di questa piccola sconfitta: si cacciò le mani nelle tasche dei jeans e, a testa bassa, tornò sui suoi passi dirigendosi nuovamente alla terrazza. Si sarebbe goduto ancora per un po’ la bellezza di quella notte stellata, e di quella luna bianca, luminosa, che almeno per un po’, si augurava, non sarebbe stata messaggera di pericolo imminente.
La sua stanza, nella quale non passava la notte da solo da ormai parecchie settimane, poteva attendere ancora un po’.
Da quando i rapporti tra lui e Venusia erano cambiati, con quella svolta che aveva ribaltato completamente le loro vite – e alla quale si era arreso solo dopo una strenua battaglia contro sé stesso – Actarus aveva rivalutato un mucchio di cose e priorità.
Gli sfuggì un sorriso, al pensiero di cosa si fosse inventata, la sua battagliera ragazza, per costringerlo a ragionare sul suo comportamento da… come lo aveva chiamato? Da capo comandone?
La punizione, lo sapeva, sarebbe durata poco: non più di una notte, almeno sperava.
Non aveva bisogno di meditare chissà cosa: aveva capito, e non sarebbe più incorso in quello stesso errore. E, sì, lo avrebbero fatto: si sarebbero protetti a vicenda, tutti e quattro, come i moschettieri.
Tutti per uno, uno per tutti, ogni volta che fosse stato necessario; anche quando sarebbe stato rischioso, duro, pericoloso; anche se questo avesse significato perdere sé stesso, Alcor, sua sorella… o Venusia.
Se lo promise seriamente, senza ripensamenti, nel silenzio della notte calda.
E lo promise a lei.
Non l’avrebbe mai più fermata, né frustrata, rischiando di farla sentire sminuita, inutile o, peggio che mai, codarda.
Si toccò il braccio destro, accarezzando quella cicatrice che lo legava a doppio filo con la Nera Signora, con la quale giocava a rimpiattino, per un motivo o per l’altro, da tempo ormai immemorabile… Eppure, ora, non aveva più paura di Lei.
Con la sua semplicità e il suo sorriso, Venusia gli aveva ricordato, un giorno dopo l’altro, un passo alla volta, tutto ciò che credeva di aver dimenticato: gli aveva insegnato di nuovo a vedere, sentire, respirare… con lei aveva riscoperto la gioia di assaporare ogni più piccolo momento di felicità e spensieratezza.
Venusia gli aveva insegnato a vivere.
Vivere la Terra e la Natura.
Vivere la guerra e l’avventura.
Vivere l’amicizia… e l’Amore.
Vivere la vita… e anche la morte.
E comunque fosse andata a finire… ora sapeva che ne sarebbe, sempre, valsa la pena.
 
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icon12  view post Posted on 21/12/2022, 08:12     +6   +1   -1
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Diffidato a non Girellare

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- Ambientato la notte dopo la prima uscita di Grendizer, volendo anche la seconda, ma sempre prima della rivelazione dell’identità di Daisuke Umon a Koji Kabuto.


Coloro che amano la pace


«Questa non è una tua guerra personale»

Queste parole andava tra sé rammentando, mentre imbeveva lo straccio sulla stecca di sapone, intento a pulire gli staffili, le redini e la sella dalla polvere dei campi.

Il vecchio Makiba seduto lì accanto su una pressa di fieno parlava senza preoccuparsi di essere ascoltato, perché aveva tanto desiderio di raccontare, e nell’abbondanza di quel suo eloquio nascondeva la paura che si era preso appena poche ore prima, quando gli alieni si erano alfine manifestati, dopo mesi di avvistamenti sempre più numerosi, ove il volo dei misteriosi piccoli dischi volanti si era fatto via via più azzardato, sempre meno circospetto.

Il contatto tanto atteso non si era svolto come se l’era a lungo sognato, il vecchio Danbei dei Makiba, gli alieni avevano mostrato timore « come le bestie selvagge quando escono dal bosco spinte dalla fame, bisogna capirli », diceva convincendosi che l’attacco cui aveva potuto assistere quel giorno, no, non era segno di ostilità, e che gli alieni desiderano conoscerci quanto noi lo desideriamo, questo pensava a voce alta.
Poi stette un minuto in silenzio, e si accorse del giovane Daisuke, figlio del professore, che forse per tutta la sera non aveva aperto bocca una volta; egli, assorto, silenzioso come un’ombra, puliva ora le briglie.

«Ehi, giovanotto – tentò di interporsi il vecchio Makiba tra quel giovane e il suo pensiero – vorrai mica farci notte con questo lavoro? Domattina la sveglia è alla solita ora, eh. – poi strinse gli occhi come fessure, scrutandolo, e digrignò come usava fare tanto spesso – Uhm, uhmmm… » e con quel lungo brontolare sospettoso Danbei Makiba uscì dalla scuderia, convinto che quel giovane così trasognato fosse un po’ ingenuo, o forse anche no, ma in tal caso, qualora l’avesse scoperto innamorato della sua “bimba”, la giovane Hikaru sua figlia, aveva pronta in canna la medicina adatta.

Riposti dunque in ordine i finimenti puliti e ingrassati, il giovane si lavò le mani, e chiuse la scuderia per la notte, poiché era rimasto solo.

Non è una tua guerra personale, queste parole gli aveva detto il padre suo, tempo addietro.

Si incamminò per il sentiero che costeggiava il bosco di bianche betulle, cercando ristoro nell’aria fresca e fina della notte. Ma il vento non spazzava via quei suoi ricordi, che vorticavano come vespe sopra il nido appena distrutto.

Calpestavano i piedi di fortissimo metallo inscalfibile quelle genti inermi, fulmini cadevano a raccolta dal cielo sulla testa cornuta del gigante meccanico, ed esso su di loro scagliava fuoco e fiamme e tutto devastava, inceneriva, schiacciava su un cammino che nessuno poteva arrestare.
Così d’improvviso, in una notte serena, il terrore accecò la gente del pianeta Fleed; ovunque fuggivano invano come topi mentre quello che doveva essere il loro Guardiano, la possente macchina che recava i fregi della casata reale, gli si era rivolto contro, senza una ragione.



Gemette. Le stelle brillavano dolcemente, come allora, sul suo pianeta. Ma non lo conosolava la loro tenue luce vibrante, né il frusciare delle foglie d’oro delle betulle innumerevoli.

La gente di Fleed morì con la sorpresa impressa sui volti, perché ai comandi di quella macchina portatrice di distruzione riconobbero lui, il loro amato principe, il giovane Duke dei Fleed, colui che amava l’armonia, la vita e la bellezza del creato più di ogni cosa.
I superstiti, nel loro destino di schiavitù, lo chiamavano “il traditore”, ignari di quanto pazienti e sottili furono gli inganni e gli artifici degli scienziati di Re Vega ai danni del giovane principe prima, e del suo popolo annichilito poi, di quelle genti che quel condottiero venuto da lontano riuscì a dominare avendo cancellato in loro il desiderio di libertà.

Il giovane principe ci ha traditi, è fuggito col Grendizer di Fleed
Chissà quali belle promesse avrà ricevuto da Vega il Grande!
Che la colpa lo perseguiti finché avrà vita


Solo i suoi genitori seppero cosa era accaduto al pilota del Guardiano di Fleed, pochi istanti prima di morire per mano sua, e le loro fioche parole furono doni d’amore.
Ma la verità non bastava a ridargli la pace nel cuore, poiché Grendizer era bagnato del sangue del suo popolo, e lui era l’unica sua guida.

Aveva ormai raggiunto il centro ricerche, e dal coronamento osservava il profondo bacino della diga, nella cui oscurità giaceva nascosta quella macchina perfetta con la quale solo poche ore prima aveva respinto la minaccia di Vega, rivelando fatalmente la sua presenza al suo inseguitore, che da allora l’avrebbe assediato fino alla vittoria o alla morte.
La guerra l’aveva seguito su quel pianeta azzurro dove aveva trovato fortunoso rifugio, come una scia venefica che non l’abbandonava.

Immaginò, in un solo fugace istante, il magnifico Grendizer scagliarsi contro il sole.
Re Vega avrebbe perso per sempre quell’arma formidabile, e senza di essa il suo impero nefasto non sarebbe mai sorto.



Gemette ancora, poiché il peso di tutto questo era troppo per un uomo solo, e lui non aveva che vent’anni.

« Ascoltami Daisuke, figlio mio – così gli disse il professor Umon a quel tempo – Questa non è una tua guerra personale. Era destino che tutto ciò accadesse, un destino amaro, ma un uomo non deve smettere di combattere. E ricorda: non sei solo, Daisuke. »

Tutti coloro che amano la pace sono con te. Disse.

Ma Duke Fleed, il silenzioso Daisuke, ancora non riusciva a comprendere in sé il senso di quelle parole, tale era il dolore che lo opprimeva.



La giovane Hikaru l’aveva raggiunto, preoccupata perché lo vedeva tardare, ella sapeva dove trovarlo quando l’animo di quel giovane si copriva d’ombra. Lasciò che lo prendesse per mano, e che lo conducesse a casa, e per un po’ stette meglio.




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view post Posted on 28/12/2022, 16:20     +4   +1   -1
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Ragazzi vincenti


Due anni sono passati.
Due anni che quel tuo robot è nascosto sotto il pesante pavimento.

Ma il tiranno c’è ancora e vuole la verde terra dove tu, principe in esilio hai trovato dimora.
Quel tuo gesto quasi scaramantico non è servito a niente.
Ora quel pavimento ha mille crepe, Goldrake esce, ma non è più ricoperto del sangue dei fleediani.

Voli nel cielo trapunto di stelle incontro al nemico, sai che potresti non tornare più.
Non sei solo questa volta, anche se non vuoi e non lo sai.

Quella notte di solitudine e disperazione, quando la luna nel cielo è divenuta color del sangue,
hai gridato di non voler più combattere.
Hai rivissuto tutto il male dell’universo, quello che il cuore di un uomo non riesce a contenere.
Il rimorso, il rimpianto, la nostalgia e la solitudine.

La tua dolce musica che viene dall’anima, quella sera l’hai suonata con grande dolore.
Ora la senti più viva che mai, è molto forte, più forte delle armi di Vega, delle urla di odio dei suoi sicari.
E da quella forza c’è un amico terrestre che ti tende la mano.
Non ha un mezzo come il tuo, le sue vere armi sono il coraggio, la tenacia, l’amicizia, il non voler soccombere al tiranno.
Gli devi la vita, ma anche tu lo hai salvato.

Il nemico non molla la presa, è ancora più forte, ma anche il terrestre ha coraggio da vendere e ha una nuova arma che non teme nulla.

Ora l’attacco viene anche dal mare. La giovane che da anni è al tuo fianco nei lavori campestri, diventa una fiera combattente. Insieme vi tuffate nelle oscure profondità dell’Oceano.
Il suo disco ha i colori del sole, il giallo e il rosso – i simboli della vita e della vittoria -

Principe in esilio, non sei rimasto solo. Lassù, su Fleed, avevi una piccola sorella che si è miracolosamente salvata. Ora è con te, vi siete incontrati e ha una voglia disperata di combattere al tuo fianco.
E’ giovane e impulsiva, forte e fragile. Ha vissuto così poco tempo con la sua vera famiglia.
Sembra che in un istante voglia recuperare il tempo perduto.
Ora siete in quattro a volare nel cielo blu punteggiato da squadre di minidischi.

E poi arriverà il mostro: chi sarà il più forte? Qualcuno perderà la vita?
Il nemico. Sarà lui a finire in polvere cosmica e non importa se si è dimostrato più forte.

Chi si scontra contro la roccia dell’amore, dell’amicizia, del tendersi sempre la mano, di combattere insieme per una giusta causa, è destinato a perdere tutto, anche sé stesso.
 
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view post Posted on 28/12/2022, 20:26     +6   +1   -1
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Scritto in collaborazione con Merlino.

CARO DIARIO

Quando si sta cercando qualcosa di perso da tempo, e che si sa che debba assolutamente trovarsi in quel determinato armadio (o cassetto, o scatolone), si può essere certi di una cosa: si troverà qualcos’altro, che magari non ha nulla a che fare con ciò che interessa.
Fu quel che accadde a Re Vega, il giorno in cui s’incaponì di trovare i vecchi manubri con cui, giovane e pulzello, aveva cercato di rassodare i propri scarni bicipiti. Era praticamente certo fossero chiusi in una scatola che, lo rammentava benissimo, era stata messa su “quello” scaffale nel tal sgabuzzino; e cerca e cerca, invece dei famosi attrezzi il sire era incappato in un quadernetto dalla copertina rosa, chiuso da un nastro lilla.
La sola vista di quei colori così chiari e femminili fece storcere il naso al sire, che sicuramente avrebbe gettato via il quadernetto senza nemmeno aprirlo, se non gli fosse caduto l’occhio sul titolo: “Diario di”, stampigliato a lettere bianche. Sotto, sull’apposita linea tratteggiata, una mano infantile aveva scritto, in belle lettere rotonde, “Rubina”.
Il diario di sua figlia?
Il sire provò a rammentare qualcosa a proposito, ma la verità era che lui nemmeno sapeva che sua figlia avesse avuto un diario. A dire il vero, all’epoca aveva saputo a malapena di avere una figlia. Rammentò la bimbetta dai grandi, dolci occhioni blu… la bimbetta con cui lui aveva sempre evitato di giocare alle bambole o di prendere il té… e sentì un certo fastidio nelle poco paterne viscere. Cattiva digestione, senza dubbio.
Comunque, poco dopo il sire era sprofondato in una poltrona del regale salotto, intento a leggere le memorie di una Rubina all’epoca di otto anni, o poco più.
Tanti ricordi sulla mamma, la (non da lui) compianta regina Telonna… qualcosina sul papà, sempre occupatissimo e quindi inaccessibile (altra fitta. Ah, questo fegato malfunzionante!)... e poi le amichette, i giochi, e soprattutto la scuola.
Ecco, la scuola. Un vago ricordo sembrò emergere dalle nebbie… il sire tuffò il naso nel diario, e cominciò a leggere.

Caro diario,
anche oggi il maestro Fuzzmink ci ha riempiti di compiti. Non ne posso più… anche i miei compagni sono stufi. Compiti e compiti, e nessuno di noi sa come farli. Il maestro ha spiegato il Massimo Comun Divisore, ma non ho capito niente! Nessuno capisce! Lui parla in fretta, e se gli chiedi di spiegare ancora, ripete come prima. Poi si arrabbia, e dice che siamo disattenti. O anche deficienti. Lo so che non è bello dirlo, ma il maestro Fuzzmink è proprio cattivo, e alle volte, se penso a lui, ho persino paura di andare a scuola.
Per i compiti, proverò a chiedere aiuto alla mamma.


Il sire rifletté.
Fuzzmink? Quel nome gli ricordava qualcosa.

Caro diario,
mamma è stata fantastica. Mi ha spiegato tutto bene bene (altro che il maestro Fuzzmink, che non si capisce mai niente!). Mamma ha detto che anche lei da piccola doveva calcolare il Massimo Comun Divisore; ma accidenti, se l’avevano già calcolato LORO, perché farlo fare anche a NOI?
Comunque, mamma mi ha fatto fare gli esercizi. Tutti giusti, ho preso un bel voto. Merito del lavoro di squadra, dice mamma: una famiglia, dice, è come una squadra, e se si ha bisogno di aiuto, lo si domanda. Anche a scuola: se un compagno fa fatica, lo si aiuta. Lei ha aiutato me, ed ecco fatti i compiti. Meno male che c’era mamma!


Re Vega rifletté ancora: qualcosa cominciava a emergere dalle nebbie del tempo… tornò comunque a leggere.

Caro diario,
sono disperata! Oggi il maestro Fuzzmink ha spiegato il Minimo Comune Multiplo. Non ci era bastato il Massimo Comun Divisore? Pure questo! E chi ci ha capito niente? Il maestro oggi era proprio arrabbiato. Dice che non ci applichiamo, se no faremmo tutti molto meglio. Ma questo, lo dice sempre. A tutti. Anche a Brubyn, il primo della classe, che ha tutti voti altissimi. Alle volte mi chiedo se lui, il maestro dico, non può tirar fuori una frase diversa. Magari, se si applica, ci riesce.
Il maestro mi ha sentita mentre lo dicevo a Brubyn. Ha strillato che non lo rispetto, e ci ha dato un sacco di esercizi! I compagni hanno detto che non è giusto, e lui “Ringraziate Rubina”. Adesso, tutti mi odiano. Voglio morire!

Caro diario,
mamma è GRANDE. Ha parlato col maestro Fuzzmink, e quello ha tolto metà dei compiti. Meno male! Però, mamma mi ha detto che dovevo chiedergli scusa, perché certe cose, sui maestri, non si dicono.
“Ma posso pensarle?”, ho chiesto.
“Puoi sempre pensare, tesoro”, mi ha detto.
I compagni non mi odiano più. Brubyn mi ha chiesto se voglio mettermi con lui. Ci penso. È carino, ma un po’ secchione. Ma è carino.


Caro diario,
disastro! Credevo di aver capito il Minimo Comune Multiplo, e invece… ho sbagliato tutti gli esercizi! Il maestro Fuzzmink ha fatto una scenata, mi ha dato un’insufficienza… io ho detto che non avevo capito bene, e lui “Perchè sei testona!”. Ma lo so, lui mi odia. Ce l’ha con tutti, ma soprattutto con me. Dice che siccome sono una principessa, sono viziata e capricciosa, e per questo mi dà sempre i voti bassi “così non mi monto la testa”. Poi mi ha detto che per la prossima volta mi darà tanti compiti perchè così imparo una volta per tutte, e in più devo rifare tutti gli esercizi! Ma io non ho capito proprio come si faccia, a trovare quel coso… e mamma non c’è! È dovuta andare da nonna, che non sta bene, e starà via qualche giorno! Come faccio? Il maestro mi ucciderà, se non faccio i compiti… oh, com’è brutta, la vita!

Qualcosa cominciò a muoversi nelle nebulose meningi del sire.
Fuzzmink, già. Ora se lo ricordava bene: un tizio occhialuto, alto, secco, i capelli ricciuti che sembravano schizzare energia elettrica e la faccia di chi ha appena mandato giù un paio di cucchiaiate di acido fenico.
Ricordava anche la faccenda del dannato Minimo Comune Multiplo – no, quello invece non se lo ricordava affatto. Faceva parte delle sgradevolezze matematiche che aveva dimenticato con cura, come i problemi sulla vasca che si riempie e il tappo che non tiene.
Di quella volta, rammentava Rubina, gli occhioni gonfi di lacrime, presentargli il quaderno: – Papà, mi aiuti con i compiti?
– Ma non c’è la mamma, per queste cose? – aveva sbottato.
– Mamma è dalla nonna – gli aveva rammentato.
Uff, vero: Telonna era assente. Infatti, c’era molta pace, in casa.
Sbuffando, aveva preso libro e quaderno, e aveva cominciato a leggere.
– Devo rivederlo un attimo, non è che me lo ricordi bene – aveva dovuto ammettere – Sai è passato un certo tempo, e comunque tuo padre ha tante cose da tenere a mente! Altro che questo Minimo Comune Denominatore!
– Multiplo, papino.
– Va bene, ‘sto coso. Vediamo un po’...
Ne era seguita una lunga lettura e una ancora più lunga fase di comprensione. Spiegazione, esecuzione dei compiti, correzione del maestro. Voto: del tutto insufficiente.
Pianti di Rubina, che si era ritrovata additata dall’insegnante quale somara, incapace di svolgere giusto anche il più semplice degli esercizi assegnati.
Punto sul vivo, perché in pratica quell’insufficienza era stata data a lui, il sire era corso subito ai ripari. Quel pomeriggio, si era messo in contatto con la moglie: in genere non lo faceva mai, dato che non gl’interessava sapere come stesse. Bisogna dire che gl’importava un po’ di più lo stato di salute della suocera (“Si è aggravata?” “No. Non ci sperare”). Quel che davvero gli premeva, era risolvere la questione dei compiti.
– Dannazione, Telonna, non puoi startene via per giorni e giorni, e rifilarmi i compiti di nostra figlia! Sono un Imperatore, non posso certo perdere tempo con quel Minimo Coso dell’Accidente…
– Minimo Comune Multiplo – aveva tagliato corto lei – Invece, stavolta devi proprio occupartene tu.
– Ma io sono l’Imperatore…
– E lei è la Principessa Imperiale, ed è tua figlia! Certo, che devi pensarci tu! Se non posso farlo io, sei tu che entri in gioco! Siamo una squadra, ricordatelo!
– Ma io non so se…
– Insomma, Yabarn! Sarai capace di aiutare tua figlia con i compiti, spero bene!
– Ecco, veramente io non so come spiegare…
– Troverai il tuo metodo, Yabarn. Fai a modo tuo, ma fai! – e Telonna aveva chiuso la comunicazione.
Rubina era arrivata poco dopo, il visetto compunto: – Cos’ha detto la mamma?
– Che devo fare a modo mio – aveva allungato una pacchetta sulla testolina della figlia – Domani papà parlerà col maestro.
Il giorno dopo, aveva accompagnato personalmente la figlia a scuola, e aveva richiesto un colloquio col maestro Fuzzmink in persona.
Era entrato nell’ufficio del maestro, lasciando fuori Rubina “papà farà in un minuto”.
Era uscito subito dopo.
– Tutto a posto, piccola – aveva annunciato.
E sì, in effetti aveva sistemato le cose a modo suo.
Girò pagina, e lesse quel che sua figlia aveva scritto quella sera.

Caro diario,
papà è stato fantastico. Il maestro Fuzzmink ha smesso di darmi brutti voti e trattarmi male davanti a tutti. A dire il vero, ha pure smesso di venire a scuola, proprio. Papà dice che non mi tormenterà più, mai più. Al suo posto, c’è la nuova maestra Harimea, gentilissima, buonissima, che mi ha spiegato benissimo il Minimo Comune Multiplo e quando ha corretto i miei compiti mi ha dato ottimo! Addirittura, mi ha detto di mostrare il quaderno a papino, perché veda il bel voto che mi ha dato; sembrava molto ansiosa. Dice che ci tiene tanto che papino sia contento. Com’è carina!
Quanto al maestro Fuzzmink, alle volte mi chiedo cosa gli abbia detto, papino. L’ho visto entrare nell’ufficio, ma c’è stato pochissimo. Ripensandoci, non so nemmeno se gli abbia parlato, perché non ho sentito voci, ma solo un rumore strano, come uno “BZOT!”.
Comunque, ora è tutto a posto! Non ho più paura di andare a scuola, non ho più il maestro cattivo che mi tormenta.
Mamma ha ragione: una famiglia è come una squadra, e ci si aiuta l’un l’altro.
Meno male che io ho il mio papà.


Edited by H. Aster - 29/12/2022, 07:11
 
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view post Posted on 30/12/2022, 20:18     +5   +1   -1
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Quarantacinque anni dopo



Cosa fanno i nostri eroi non venti, ma quarantacinque anni dopo? Esplorano mondi, raddrizzano torti, difendono deboli, conquistano regni? È probabile, ma io non sono capace di raccontarlo. E comunque, quando è stato bandito il concorso, non ero in vena.
Allora, che fanno i nostri eroi quarantacinque anni dopo? Vivono. Vivono e lottano. E sono sempre una magnifica squadra. Vincono? Forse. Al lettore deciderlo.
Buon quarantacinquesimo di Goldrake in Italia a tutti!



Curvo, a piccoli passi incerti e penosi, con la destra sul pomello di un bastoncino proporzionato alla bassa statura e la sinistra sulla schiena, l’anziano ranchero arrancò dal cancello fino ai piedi della struttura metallica che svettava al centro della fattoria.
“Venusia!”
Silenzio.
“Venusiaaa!?!”
La voce chioccia del vecchio si propagò in tutte le direzioni, simile al rumore della carta vetrata.
“Cosa fai lassù da tutto questo tempo?”
“Mantengo in vita le tradizioni di famiglia, papà” rispose imperturbabile la matura signora dall’alto del traliccio, senza nemmeno staccare il binocolo dalla faccia. “Osservo l’arrivo degli UFO.”
“Ma-ma-ma-macché diavolo vai dicendo? Quella è una stagione chiusa, passata, out, kaputt!” rimbeccò stizzito il vecchietto. “E poi, sono io l’unico, autentico, impareggiabile, insostituibile Presidente dell’Associazione Amici degli UFO. O almeno, lo ero. Finché non ti hanno quasi colpita a morte!” Rigel trascorse all’improvviso dallo scoppio d’ira al singhiozzo lamentoso.
“E non ti sembra il momento di passare la mano alla generazione più giovane?” lo interrogò la figlia, per nulla impressionata.
“Più giovane, più giovane… Te li do io i giovani!” riesplose prevedibilmente Rigel. “A proposito: quel buono a nulla di Actarus, dov’è?” attaccò, e sollevò il bastone puntandolo minaccioso verso il cielo.
“È al laboratorio. Ricordi che, da quando il professore è andato in pensione, lui lo ha sostituito alla guida del Centro Ricerche?” rammentò con pazienza Venusia al genitore.
“In pensione, in pensione… Procton non è andato in pensione! Semplicemente, si è ritirato a riflettere sull’Universo a casa sua, in un luogo molto più comodo di quella sala comando, così gelida e spigolosa, con tutti quegli spifferi tra le porte scorrevoli e mai nessuno che bussasse, prima di entrare.”
“Papà!” lo interruppe la donna, ora in procinto di spazientirsi. “È in pensione, da oltre vent’anni”, ribadì con tono di voce leggermente superiore allo standard. “Tra poco ci andrò perfino io in pensione!” esclamò risentita. “Ho sessantadue anni suonati e se non fosse stato per quella riforma, tempo fa, già mi godrei il meritato riposo! E invece, ancora qui a mungere, spalare, strigliare…”
“Ma quale pensione e pensione! Se sei ancora una ragazzina!” blaterò inarrestabile il padre. “L’unica differenza rispetto a… - ehm… - qualche anno fa, sono le cifre stratosferiche che mi fai spendere in tinture per capelli!”
“Papà!” gridò Venusia, ormai spazientita, strappandosi bruscamente il binocolo dal viso.


“Professore?”
“Sì, Hayashi?” il capo del Centro Ricerche distolse lo sguardo dal monitor.
“Una chiamata da suo padre, chiede se può passare a trovarlo prima di sera.”
“Certamente” rispose l’uomo. “Anzi, andrò subito. Ti dispiace sostituirmi nell’ultima ora di osservazione diurna?”
“Volentieri!” replicò Hayashi.
Actarus si alzò, lasciando al collaboratore il posto davanti allo schermo centrale; si sfilò velocemente il camice bianco e uscendo lo appese al gancio accanto alla porta di fondo; dal gancio gemello afferrò la giacca, indossandola, quindi si avviò per il corridoio, mentre con due dita cercava di allentarsi il colletto della camicia.
Non mi abituerò mai alla cravatta… sospirò scuotendo la testa dalla capigliatura grigio ferro, non lunga, ma folta.


Colpi lievi e discreti interruppero la quiete dell’ampia stanza. Qualcuno socchiuse la porta senza aspettare risposta.
“Permesso?”
Dalla nube di fumo di pipa che stazionava nei pressi della finestra si levò un brontolio sottile.
“Padre, mi hai fatto chiamare?”
Il brontolio divenne un accesso di tosse leggera ma persistente. L’uomo sulla soglia restò rispettosamente in attesa che il padre tornasse in grado di interloquire.
“Figliolo!” si udì, dopo un certo tempo. “Figliolo, vieni qui. Come stai?” lo salutò felice l’anziano, cominciando a manovrare le ruote della carrozzina con l’intenzione di volgersi verso il visitatore. Il figlio si fece avanti per aiutarlo, poi gli si sedette accanto.
“Sto bene, grazie. E tu? Come va oggi il respiro?”
Il vecchio professore ridacchiò sotto i candidi baffi, emettendo dal fornelletto, tenuto con mano appena tremante, voluttuose, odorose spirali: “Probabilmente dovrei smettere di fumare…” Un colpo di tosse. “Ma non credo sia ancora giunto il momento!” Numerosi colpi di tosse conclusero la considerazione.
Actarus sorrise, abbassando lo sguardo.
“Che notizie, oggi, dal laboratorio?” riprese il vecchio.
“Tutto nella norma: ci prepariamo a osservare lo sciame delle Perseidi; quest’anno dovremmo avvistarne parecchie, ci sarà Luna nuova.”
“Si è fatto vivo Genichi?” lo interruppe serio il padre.
Actarus tacque, rabbuiandosi: “No.”


Fragorosi rumori metallici dalla rimessa. Imprecazioni.
Ma guarda cosa mi tocca sentire! “Alcoor!” Maria imboccò con furia la porta dell’officina: “Se non sei capace di riparare il mio gioiellino, basta dirlo. Lo porterò immediatamente da Boss. Lui sì che se ne intende di motori!”
Due gambe avvolte in una tuta blu da meccanico sussultavano al ritmo delle martellate, spuntando da sotto il veicolo in manutenzione.
Ancora un colpo, più sordo degli altri, poi un grido.
“Basta!” Alcor strisciò allo scoperto con un mugolio, strizzandosi il dito schiacciato. Rimase supino a riprendere fiato. Placato l’affanno, volse lo sguardo verso l’uscita del capannone: la silhouette di sua moglie si stagliava inconfondibile, in controluce sullo sfondo accecante; con le mani sui fianchi e il piede a tamburellare nervoso, era il ritratto della minaccia.
Al diavolo! L’uomo sorrise tra sé, quindi si sollevò cautamente da terra; mentre avanzava verso di lei, afferrò la chiusura lampo della tuta e con un gesto deciso la fece scorrere fino in fondo. La vide cambiare espressione. Allo sgomento della donna sogghignò, ma alla sua delusione quando lo vide emergere vestito di tutto punto da sotto l’abito da lavoro, scoppiò a ridere di gusto. L’abbracciò all’improvviso, rubandole un bacio: “Va bene, portiamola a Boss la tua fuoriserie” acconsentì senza discutere. Maria arrossì, disarmata dal buonumore di suo marito. Lasciata perdere la stizza, rispose all’abbraccio.


Era lì, come sempre. Un puntolino bianco, immobile in cima al traliccio. Sperava di vederlo arrivare per prima. E anche lui, all’inizio di ogni giornata all’osservatorio, sperava di poterle portare, di sera, una buona notizia. Quanto aveva aspettato… Quanto avevano aspettato! Ma a lei era successo due volte. Solo in quegli ultimi anni Actarus aveva capito davvero che cosa doveva aver provato Venusia, prima del suo ritorno da Fleed. Non poteva impedirsi di ricordarlo quando, al tramonto, rientrando dal Centro Ricerche, la scorgeva lassù di vedetta. La ammirava, perché non si perdeva d’animo; allo stesso tempo, temeva per lei. Spesso, prima di addormentarsi, la fissava, assopita e indifesa. Osservandola bene notava le rughe, un’espressione dolorosa e severa che nemmeno l’abbandono del sonno riusciva ad ammorbidire.
Genichi era partito ormai da cinque anni e da quattro non dava notizie di sé. Si può perdere la testa per un figlio scomparso e a lui sembrava di scivolare ogni giorno un poco di più verso quel destino. Lo tratteneva la vista di Venusia, fiduciosa, ferma, in apparenza serena. Ma se anche lei si fosse incrinata… Actarus scosse il capo e sbatté forte la portiera della vecchia jeep appena parcheggiata, per essere sicuro di averla chiusa bene e per scacciare il fantasma.


“Ehi! La tua zuppa è sempre la migliore che io abbia assaggiato!”
Venusia sorrise. Mizar non mancava mai di essere affettuoso con lei. “Grazie!” rispose compiaciuta, versando un bis generoso nelle scodelle di tutti.
Nonostante la sede aziendale fosse molto lontana e gli affari richiedessero un’attenzione costante, suo fratello non li aveva dimenticati: una volta al mese, tornava a trascorrere il weekend nella vecchia casa in campagna, con la famiglia e gli amici che si erano stabiliti nei pressi.
“E se lo dice lui, ci puoi credere!” esclamò Alcor, strizzando un occhio. “Con tutti i ristoranti famosi che frequenterà per lavoro!” La gomitata di Maria tra le costole lo interruppe: “Invidioso!” gli sibilò in un orecchio. Un accesso improvviso di tosse lo mise definitivamente a tacere. Venusia si affrettò a versargli dell’acqua.
“Eeeeeeeh! Ma cos’è quella roba?!?” tuonò Rigel dal capotavola. “Ci hai preso per vecchi?!?” rincarò. “Tira subito fuori una bottiglia di quello delle grandi occasioni!” gracchiò imperioso all’indirizzo della figlia, calando contemporaneamente un gran pugno sul piano di legno massiccio. Le stoviglie sobbalzarono tutte insieme. Il tintinnio coprì un sinistro scricchiolio d’ossa.
“Ahi! Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!” saltò su il vecchietto, serrando con la mano sana quella contusa all’altezza del polso e scuotendola teatralmente sotto il naso dei commensali.
“Papà, per favore…!” esclamò Venusia. “Così non fai che peggiorare le cose!” tentò di placarlo. “Ci manca solo la frattura scomposta!!!” esclamò esasperata.
“Ma no, ma no!” si udì la voce saggia di Mizar. “Nostro padre è sempre stato un uomo tutto d’un pezzo…” ammiccò alla sorella. Qua e là si levarono risatine debitamente soffocate, per rispetto verso il quasi centenario fattore, mentre il figlio minore lo invitava con delicatezza a lasciare la tavola: “Però, sarà meglio andare a fare un controllo in infermeria, vero papà?”
Rigel si avviò rassegnato, ma in fondo contento, appoggiandosi al braccio del suo rampollo.
Quando la porta si fu richiusa alle loro spalle, il pranzo proseguì in silenzio e presto terminò.
“Bene!” concluse Actarus alzandosi. “Io andrò a salutare mio padre”.
“Vengo con te!” si unì Alcor.


Il professor Procton partecipava ai pasti comuni solo nelle grandi occasioni. Di solito rimaneva nella sua stanza, che amava. Era l’ambiente più bello del piccolo appartamento dove aveva sempre vissuto, fin dall’inaugurazione della “Betulla Bianca” e del Centro Ricerche. A dire il vero, ai tempi del Centro quelle camere lo vedevano raramente, ma era lì che aveva curato suo figlio, quando era diventato padre senza essere stato marito; da lì suo figlio era uscito in kimono nuziale e lì il piccolo Genichi aveva cominciato a prendere confidenza con le stelle, attraverso i racconti del nonno. Ciascuno di quei momenti era immortalato in una o più foto e tutte occupavano un posto preciso, dove Procton le ricollocava, infallibile, dopo ogni passaggio della donna delle pulizie.
In realtà, non c’era dettaglio di quella casa che egli non ricordasse perfettamente e anche negli ultimi tempi, quando la vista e le forze erano tanto diminuite, continuava a muoversi senza incertezze fra il letto e la poltrona, tra lo scrittoio dov’era alloggiato un piccolo computer da tavolo e la finestra, accanto a cui montava la guardia il vecchio telescopio ottico, fedele compagno di tante nottate…


“Buon giorno padre! Come stai?” lo salutò allegro Actarus.
“Buon giorno fi…”
La frase rimase a metà, il professore si portò una mano al petto, impallidì e cadde di peso in avanti.
Appena un istante di smarrimento, poi il figlio si gettò su di lui: “Alcor! Chiama i soccorsi!”
Insieme lo liberarono dalla sedia a rotelle che l’aveva travolto e lo stava schiacciando; lo distesero delicatamente sul pavimento e subito, disperati, provarono a rianimarlo.
Una pausa di pochi secondi… minuti… brevissima. Eterna.
Poi, in un lampo, il tempo riprese a scorrere travolgente: la sirena dell’ambulanza; la corsa degli infermieri; le informazioni trasmesse d’urgenza; l’uscita in barella.
Alla fine, il silenzio e la stanza disfatta.


***




“È vigile, ma la comunicazione verbale è compromessa; rimarrà dipendente per l’alimentazione e le altre funzioni; la respirazione è di nuovo autonoma, ma bisogna monitorare costantemente i valori. E soprattutto – mi raccomando! – ha bisogno di stimolazione continua. Se volete che si riprenda, non lasciatelo mai solo!”
Le parole del medico gli rimbombavano nella testa. Suo padre era salvo. Immobile, debilitato, ma salvo. Aveva resistito all’attacco, da quell’uomo forte che era sempre stato, e dopo giorni di cure intensive ora poteva tornare a casa.
I gomiti piantati sul tavolo della cucina, le dita a puntellare le tempie, Actarus rifletteva cupo.
Una mano familiare gli strinse la spalla, Venusia gli si sedette vicino. Il contatto lo fece scattare: "Come faremo?" La voce era incrinata. "Non siamo medici, non siamo infermieri e lui è debolissimo!" Scosse il capo: "E poi, siamo tutti impegnati con il nostro lavoro” aggiunse triste.
La moglie lo abbracciò in silenzio.
Actarus rialzò la fronte: "Ma è vivo e io... io voglio che viva!" gridò in lacrime.
Senza parlare, Venusia lo strinse più forte, poi allungò un braccio e afferrò il taccuino che usava per la lista della spesa, strappò il primo foglio e lo stese sul tavolo. Tracciò approssimativamente una griglia rettangolare sul pezzo di carta; mordicchiò incerta l’estremità della matita, quindi prese ad appuntare veloce sul lato corto della figura: “Mattina, pomeriggio, sera, notte.” E su quello lungo: “Lunedì, martedì, mercoledì…” Terminata la settimana, si fermò soddisfatta e piantò gli occhi in quelli del marito: “Non lo lasceremo mai solo” decretò. “Troveremo infermieri disposti ad assisterlo in casa; un medico valido che ci guidi; ma soprattutto, ognuno farà la sua parte!” esclamò convinta.
L’uomo la scrutò interrogativo.
“Parleremo con gli altri” spiegò lei. “Tutti noi abbiamo avuto bisogno di lui. Ora lui ha bisogno di noi”, concluse con logica cristallina, quindi riprese a scrivere, muta.
Finalmente Actarus si interessò allo schema che sua moglie stava abbozzando. Le caselle si riempivano di parole, in corrispondenza di ogni giorno della settimana comparivano nomi: Actarus, Venusia, Maria, Alcor, Hayashi, Yamada, Mizar…
“Che ne pensi, Mizar sarà disposto a fare compagnia a tuo padre per alcune ore, quando viene a farci visita?”
“Sicuro! Ma accade solo una volta al mese” osservò Actarus.
Venusia alzò le spalle: “Starò io con lui, nelle giornate scoperte”.
Actarus la abbracciò a propria volta, commosso. Venusia, non ti sei mai tirata indietro, da nessuna battaglia. Contro Vega hai combattuto fino alla fine. E… anche adesso. Ma stavolta non voglio che arrivi la fine!
La versione provvisoria dell’opera, compilata a matita, finì in bella vista sul frigorifero, tra un magnete col monte Fuji e un altro in cui una florida mucca svizzera reclamizzava una nota marca di cioccolato. La posizione dei nomi sarebbe di sicuro cambiata in base alle disponibilità di ciascuno; inoltre, qua e là, punti interrogativi marcavano i rettangoli vuoti.


La porta si aprì cigolando. Rigel entrò di soppiatto in cucina: “A-aaah! Vi ho trovato! Non posso girare gli occhi un momento che subito voi due…”
L’abbraccio si sciolse all’istante.
“Ma scherzavoooo!” gorgheggiò il vecchietto, imperturbabile. “Eh, eh, eh… ci mancherebbe, ci mancherebbe… Da quando siete sposati…” concluse arrossendo.
“Papà…” attaccò Venusia tra i denti, ma Actarus la fermò.
“Volevo solo ricordargli che siamo sposati da più di trent’anni, anzi da quasi quaranta”, pronunciò sottovoce. Il marito le fece cenno di no con la testa, sorridendo appena. Tacquero entrambi.
“Be’?!? Che silenzio! Ho detto qualcosa di male?” riprese l’anziano cow-boy, avvicinandosi lento e deciso all’obiettivo che l’aveva spinto a quell’incursione: recuperare un paio di birre ghiacciate e andare a trangugiarsele lontano da sguardi indiscreti, nella frescura umida della stalla.
Fu allora che notò il foglio che penzolava con noncuranza più o meno all’altezza della sua fronte. Inforcò gli occhiali e aguzzò la vista: “Ehi, ehi, ehi!!! Cos’è questa storia?” si interessò.
“Sono i turni per fare compagnia al professore” rispose Venusia a mezza bocca, con il tono più neutro del mondo, sperando di farla franca.
“EEEEEEEKKK! Ma io non ci sono!” gridò suo padre. “Mi avete sempre escluso da tutte le cose importanti!” attaccò lamentoso. “Ma adesso non se ne parla! Ci sarò anch’IO! Inseriscimi subito in quello schema diabolico!” ordinò perentorio.
“Ma papà, Procton ha bisogno di aiuto e tu sei…” Di nuovo, Actarus le fece cenno di non continuare.
“… e io sono suo amico!” esclamò Rigel. “Se il mio amico ha bisogno di aiuto, io sarò in prima linea! Sarò sempre al suo fianco! E questa veghiana d’una malattia la cacceremo via, indietro! Così, così, così!!!” E mentre parlava, d’incanto, il bastoncino sottile di canna dal pomello rotondo di osso si trasformò in una potente katana che menava fendenti mortali sibilando nell’aria.
Presto, però, la magia si dissolse: braccia e bastone crollarono. “Ohi, ohi, ohi, la mia schiena…” balbettò tremolante il vecchio fattore, tornando di colpo alla normale postura incurvata. “Ho proprio bisogno di una birra fresca” ansimò.
La figlia lo afferrò per le mani e lo condusse fino alla sedia più vicina: “Riposati un poco, papà. Te la servirò io” sorrise, mettendogli davanti un boccale. Dopodiché, senza aggiungere altro, si dedicò a completare la griglia, assegnando equamente le caselle vuote a sé stessa e a suo padre, mentre Actarus annuiva soddisfatto.
È tutta sua madre! s’intenerì il vecchietto, ingollando un sorso ghiacciato. Che bello avere un figlio amorevole, considerò, ringalluzzito dalla bibita fredda gradevolmente fermentata. Non come quel Genichi, che invece è tutto suo padre! s’inalberò tra sé e sé. Sempre a zonzo per l’universo! Ah, ma se mi capita a tiro…! La mano leggermente tremante di Venusia, le rughe che segnavano la sua fronte, non solo per la concentrazione, attirarono l’attenzione di Rigel. Dove sei finito, nipote? Il fattore sospirò rumorosamente, quindi tracannò fino in fondo la birra. L’improvvisa impennata del grado alcoolico nel sangue, o forse la commozione, gli provocarono un singulto. Torna, Genichi!


“Professore! Sono felice di vederla!”
Alla voce squillante, l’uomo disteso nel letto inarcò un sopracciglio.
“Sono felice che lei sia tornato a casa!” insistette la voce.
Procton aprì gli occhi, riuscendo a imporre la sua volontà solo a uno dei due. La visitatrice gli si fece vicina, per entrare nel suo campo visivo. Lo sguardo del vecchio si illuminò; anche le labbra si schiusero in parte ed emisero un suono: “Ma…” fu quasi sicura di udire, la donna.
“Sì! Sono io!” esclamò allegra. “Sono proprio io, Maria!” Gli strinse la mano tra le sue, ricevendo in risposta una contrazione leggera e fuggevole delle dita esangui.
Bastò: Maria si lanciò in un monologo-fiume. Seduta al capezzale dello scienziato, col braccio proteso tra le sponde del letto, stringeva il palmo dell’anziano paziente e parlava: “Oh professore, lei è stato il primo a darmi fiducia. Se non fosse stato per lei… Be’, veramente anche mio fratello, quella sera… Ma lei accettò subito la proposta di farmi unire alla squadra, ed ero appena una ragazzina! Che rischio! Che responsabilità! Professore, le sono sempre stata immensamente grata e non ho mai trovato il coraggio di dirglielo…”


Il tempo scorreva, l’uomo di tanto in tanto sorrideva. Sì, era un sorriso, del tutto riconoscibile, almeno dal lato del volto risparmiato dal male.
La luce all’esterno calava.
“Arrivederci, professore”.
Espressione di attesa.
“Tornerò tra una settimana”.
Nuovo, distinto sorriso.
Maria non si decideva ad andare. Dopo lunga incertezza, bisbigliò precipitosa all’orecchio di Procton: “… la posso baciare?”
Sopracciglio inarcato, rossore.
Di getto, la donna si sporse oltre la sponda e stampò un bacio sulla tempia del professore.
Sorriso marcato.


“Padre!”
La fronte imperlata, le palpebre strette a proteggere gli occhi dal raggio di sole.
Actarus raggiunse rapidamente la finestra e fece calare la tenda con un gesto secco e preciso. La contrazione che denunciava il fastidio scomparve dal volto di Procton.
“Come stai oggi?” gli chiese il figlio, tergendogli brevemente il sudore con una salvietta e poi accomodandosi sulla sedia a disposizione dei visitatori.
Un respiro regolare e profondo replicò alla domanda banale.
“Oggi stai bene” si rispose Actarus rassicurandosi. “Però un piccolo controllo non guasta” affermò calmo. “Ti pare?”
Il destinatario del retorico interrogativo non mostrò reazioni evidenti. Il polpastrello del medio si lasciò stringere docile nella morsa leggera del saturimetro.
I primi giorni dopo il ritorno a casa, suo padre aveva avuto bisogno di ossigeno, ma poi la necessità era diminuita fino a cessare. Ad ogni modo, la bombola era sempre lì, pronta nell’angolo.
“Sicuro che non gli servirà ancora, dottore?”
Il medico aveva considerato benevolo la domanda: “Va bene, gliene prescrivo ancora un po’, al bisogno”
. Actarus scosse la testa al ricordo: in tutta fretta avevano dovuto imparare a decifrare i segnali di quel bisogno, ad usare il piccolo – infido a tratti – strumento e ad interpretarne le cifre oscillanti, inaffidabili addirittura, in caso di estremità troppo fredde…
98. “È perfetta” comunicò l’uomo a suo padre, con un certo sollievo.
Anche il malato si rilassò, sul volto sembrò aleggiare un sorriso, nonostante le palpebre chiuse. L’indice si sollevò un poco e ricadde più volte sul lenzuolo, producendo piccoli tonfi attutiti.
Papà… Actarus gli coprì il dorso della mano col palmo. Non l’aveva mai chiamato in quel modo, come fanno i bambini; si erano conosciuti da adulti. Ma ora provava una gran voglia di trattare con tenerezza quell’uomo fragile a cui doveva la vita.
“Padre…” Be’, prima o poi ci sarebbe riuscito a cambiare registro, si disse indulgente.
La mano del vecchio fremette.
“Ò…è…ghe…?” Un respiro, il sopracciglio aggrottato. “Ò…è…ghe…?”
Actarus lo fissò, sforzandosi di indovinare. Ò…è…ghe…? Ò…è…ghe…?
“Dov’è Genichi!” esclamò, scrutando suo padre.
Il sopracciglio si arrotondò, l’occhio si spalancò a confermare che la domanda era quella.
“Dov’è Genichi…” ripeté triste il figlio. “Non lo so, padre”.
Il vecchio si rabbuiò.
“Non lo so. Mi dispiace”, concluse sconsolato l’uomo.
Silenzio.
Maledizione, papà. Non lo so. Non lo so! L’ho lasciato andare nello spazio profondo. L’ho addestrato al controllo di Goldrake. Ma Fleed non bastava per lui! Ci è rimasto per un anno, poi è andato oltre. Dove? Dove, mi chiedi? Non lo so!
Venusia si sta consumando. Ed è colpa mia.

Il sopracciglio del vecchio tornò ad aggrottarsi, il respiro si fece affannoso. Actarus si accorse di stare stringendo forte le dita di Procton. Troppo forte.
“Perdonami, padre! Non volevo!”
Si affrettò a misurare di nuovo la saturazione. Era buona.
Quando si fu calmato egli stesso, riprese il suo posto. Accarezzò goffo la mano del padre, lo guardò a lungo: ora si era assopito, sembrava tranquillo.
Il corpo tradisce, e la mente, spesso. Ma il cuore non muore, si sorprese a pensare.


“Permesso?”
Il silenzio e l’immobilità della sagoma orizzontale non facilitavano il compito del nuovo venuto. L’uomo gettò un’occhiata dentro la stanza, superò la soglia con circospezione, mosse due passi all’interno. Quindi, si schiarì la gola e quando fu nelle vicinanze del letto ripeté con voce stentorea: “Permesso?”
L’unico effetto che provocò fu una lieve accelerazione del respiro del vecchio. Alcor tossicchiò ancora e si grattò nervosamente la nuca: “Professore, sono io, Alcor” si sforzò di scandire nei pressi dell’orecchio dell’anziano malato.
Ancora nulla.
Il visitatore provò forte la tentazione di guadagnare l’uscita alla chetichella, senza disturbare oltre. Si era già allontanato di qualche metro, quando un pensiero lo fulminò: Sto voltando le spalle! Il guizzo d’orgoglio lo costrinse a innestare la retromarcia; afferrò la sedia e si accomodò a fianco del letto del professore. Chi l’avrebbe sentita sua moglie, altrimenti?
Tuttavia, nell’imbarazzante silenzio, non era stata Maria a venirgli in mente per prima, bensì Venusia. O meglio: l’espressione del volto di Venusia, quando gli aveva chiesto di aiutarli a non lasciare mai il professore da solo e lui le aveva risposto di essere molto occupato. La sua delusione evidente lo aveva punto sul vivo: avrebbe negato il suo aiuto agli amici di tutta una vita? Non era mai successo! O forse sì, ma così tanti anni prima… Era giovane allora, un giovane incosciente in cerca di gloria. Ancora se ne vergognava. Dunque, per rimediare, Alcor aveva farfugliato che per il professore si sarebbe liberato con grande piacere.
Con piacere… Facile a dirsi!
Adesso era lì, senza sapere come comportarsi.
Gettò un’occhiata guardinga tra le due sponde: il malato sembrava dormire.
Lui non era fatto per quelle cose, era un uomo d’azione. Perbacco! Se si fosse trattato di pilotare il suo disco, magari di combattere ancora, non ci avrebbe pensato due volte. Ma questo… Stare lì così, senza nulla da fare…
Occhieggiò di nuovo il corpo disteso. Certo, Maria l’aveva molto incoraggiato; gli aveva riferito entusiasta le evidenti reazioni del professore a tutto ciò che lei aveva infaticabilmente condiviso con lui per un intero pomeriggio.
Sarà…
Ad Alcor non sembrava affatto evidente che Procton reagisse in qualche modo alle sue sollecitazioni. Anzi, c’era perfino da dubitare che fosse in grado di recepirle. Lo guardò ancora, avvilito. Quant’era diverso quel fragile vecchio, impotente e indifeso, dal volitivo capo del Centro Ricerche, l’uomo che aveva coordinato la resistenza all’attacco di Vega, l’insigne scienziato!
Un sottile disagio, parente della paura, gli penetrò nelle ossa.
Com’era arrivato a quel punto, il professore?
La domanda, solo in apparenza banale, tirò la volata a una sfilza di risposte rassicuranti: l’età naturalmente (anche Rigel, però, aveva quasi cent’anni e tanta gente, per contro, si ammala da giovane…), ma anche una vita di lavoro sedentario, di veglie notturne, di tensione e fatica. E poi, inutile nasconderselo: tutto quel fumo! Si dice che la pipa non sia dannosa come le sigarette, ma chi può saperlo?
Alcor scosse la testa con decisione: lui non si sarebbe ridotto in quel modo. Meglio andarsene prima, sentenziò sicuro tra sé e sé. Ma certo, a lui non sarebbe successo. Aveva sempre mantenuto uno stile di vita sanissimo e non aveva mai smesso di tenersi in forma: corsa, palestra, nuotate… E come avrebbe potuto diversamente? Col mestiere che gli era toccato in sorte! Le immagini del passato tornarono vivide. L’attacco alieno alla Terra sembrava aver sepolto per sempre i suoi sogni di ragazzino, invece li aveva soltanto messi alla prova. In quei pochi, terribili anni, aveva vissuto e imparato, soprattutto a non pensarsi da solo. L’esperienza del team si era rivelata fondamentale quando, tornata la pace, era stato ammesso ai durissimi training della Nasa e li aveva superati brillantemente.
Tutto grazie a lei, professore, si trovò all'improvviso a riflettere.
Ed era stata ancor più decisiva, quando aveva partecipato all’epopea dello Shuttle e quando, infine, aveva prestato servizio sulla Stazione Spaziale Internazionale.
“Se non fosse stato per lei, non avrei mai superato me stesso” mormorò, senza accorgersi di articolare a voce alta i pensieri. “Sarei rimasto quel presuntuoso che ero a vent’anni!” s’infervorò. “Ero così convinto di sapere già tutto” rise sincero. “E invece…!”
Le confidenze del veterano dello spazio al suo mentore cominciarono a fluire in libertà: sentimenti, memorie, impressioni che non aveva mai condiviso con anima viva. Una confessione. Il volto di Procton rimaneva immobile. Alcor si lasciava andare ai ricordi. Di tanto in tanto si interrompeva brevemente e gettava un’occhiata di traverso nel letto: “Ma lei non mi ascolta, vero professore?” diceva dubbioso, e tuttavia abbastanza sicuro di parlare a sé stesso. “E come potrebbe?” aggiungeva deluso.
Andò avanti per molto, poi emise un sospiro carico di nostalgia e infine tacque.
Trascorsi alcuni minuti di profondo silenzio, l’uomo si alzò di scatto. Il rumore sgraziato delle zampe della sedia sul pavimento annunciò la sua uscita imminente.
“A…oor.”
Il visitatore si bloccò. Chi aveva parlato? Procton? Aveva detto qualcosa? Quindi, si aggrappò alle sponde e avvicinò con veemenza la propria faccia a quella del malato, come se il gesto potesse facilitare la comprensione di quei pochi suoni inarticolati.
“Al…c-ooor” soffiò il vecchio, spossato dall’aggiunta delle due consonanti.
“Professore!” gridò l’astronauta in pensione.
L’occhio spalancato, il sopracciglio inarcato, le dita della mano a battere sul lenzuolo un ritmo percepibile ma misterioso.
Alcor arrossì di vergogna: “Ma… ma… lei mi stava ascoltando!” balbettò incredulo.
Procton sospirò e lo fissò a lungo, lo sguardo colmo d’affetto.


Concluso il normale passaggio delle consegne, Hayashi si apprestava a lasciare la sala comando.
“Sei stato dal professore?” lo trattenne Yamada.
“Sì, ieri con Stella” rispose il collega.
“Com’è andata?” insisté l’uomo occhialuto. “Sai, domani sarà il mio turno”, aggiunse giustificandosi.
L’espressione dell’interlocutore divenne, se possibile, più gioviale del solito: “Benissimo”, dichiarò soddisfatto.
“Ovvero?” indagò ancora l’altro.
Hayashi rimase un momento perplesso, poi comprese l’ansia del collega, la stessa che aveva provato lui alla vigilia della prima visita al loro capo di un tempo, dopo il suo ritorno dall’ospedale. Aveva portato con sé sua moglie, che il professore conosceva molto bene, per essere sicuro di riuscire con il suo aiuto a portare a termine il compito che gli era stato affidato. Era stato utile: Procton aveva riconosciuto la voce di Stella, fissandoli entrambi con l’occhio che era in grado di aprire. Quindi aveva seguito con manifesto interesse la cronaca delle ultime giornate al laboratorio, ascoltando tutto con attenzione, fino ai più minuti dettagli riguardanti le misurazioni. Infine, senz’ombra di dubbio, aveva provato una forte emozione quando il suo vecchio assistente gli aveva comunicato che il Centro Ricerche stava per annunciare alla comunità scientifica la scoperta di un nuovo pianeta, dimostrata grazie alle loro osservazioni sulle variazioni di luminosità di una stella, su cui stavano lavorando da tempo.
“Ti ringrazio collega”, replicò Yamada sollevato. Poi, cominciò a radunare le carte che l’indomani avrebbe letto, per tenere compagnia al professore.


***




La squadra si riuniva a rapporto nel quartier generale della cucina. Ormai anche i vecchi collaboratori del Centro Ricerche erano di casa alla fattoria: almeno una volta alla settimana, si fermavano a cena con gli altri. In quelle occasioni, ognuno condivideva ciò che era capitato durante il suo turno di assistenza al malato e spesso l’esperienza dell’uno rispondeva alle domande dell’altro. L’animatrice di quei briefing serali, di solito, era Venusia.


“La fisioterapia sta andando benissimo. Presto il professore sarà in grado di stare seduto”, comunicò felice la padrona di casa. “Ma non è tutto” continuò, dopo aver scodellato ai commensali la prima portata. “La prossima settimana, quando Mizar tornerà, ci porterà un sollevatore elettrico nuovo di zecca, così il professore potrà passare un po’ di tempo in poltrona!” esclamò trionfante.
“Ehi, ehi, ehi! Andiamoci piano ragazzina. Che diavoleria è un sollevatore elettrico?” la interruppe burbero Rigel. “Non vorrete mica fare del male al mio amico?”
Risatine sommesse si levavano già tra i commensali seduti di fronte a Venusia, che l’avevano vista cambiare colore all’appellativo con cui il padre l’aveva qualificata. Actarus, invece, che non aveva bisogno di guardarla in faccia per capire che piega avrebbe preso di lì a poco la conversazione, intervenne conciliante: “Puoi stare tranquillo Rigel. È solo un apparecchio che aiuta ad alzare dal letto chi non è in grado di farlo autonomamente.”
“Ah, volevo ben dire!” bofonchiò il centenario e, ammansito, rituffò il cucchiaio nel piatto.
Dopo un breve momento di piccato silenzio, la relatrice riprese la parola: “Inoltre, presto sarà Capodanno!” annunciò giuliva. “Lo festeggeremo a dovere. Per fortuna la stanza del professore ha una grande vetrata rivolta proprio a est e di natura nei dintorni ne abbiamo parecchia!” notò soddisfatta. “Ci vestiremo a puntino e tu, papà, dirigerai la preparazione dell’altare delle offerte”, continuò rivolgendosi a Rigel, già ammorbidita. “Pregheremo tutti insieme all’alba del primo giorno dell’anno; anche tuo padre Actarus, come abbiamo sempre fatto!”
Tutti accettarono la proposta, sorpresi e contenti.


L’infermiere di notte era in ferie, per trascorrere la festa in famiglia. Actarus e Venusia si erano divisi le ore di veglia accanto al letto del professore e poi insieme, prima dell’alba, avevano eseguito la toletta mattutina dell’ammalato. Ora Procton riposava, splendido nel suo kimono da cerimonia, profumato, sbarbato, con i baffi color della neve perfettamente curati, mentre il figlio e la nuora, a propria volta, dandosi il cambio, si preparavano per l’occasione.
Quando fu il momento, pian piano, silenziosi, entrarono gli altri. La stanza si riempì di bisbigli, di attesa, di meraviglia. Fu preparato l’altare, con i cibi e gli oggetti rituali; il letto del professore fu rivolto verso la grande finestra, con lo schienale sollevato per permettergli di contemplare il sole nascente, e finalmente tutti gli si disposero intorno, a destra e a sinistra, a fargli corona.
Il primo raggio di luce del nuovo anno brillò all’orizzonte.
“Io prego per la pace”, prese la parola Actarus.
“E io per la nostra buona salute”, continuò Venusia, tenendo chiuso nel cuore il suo desiderio profondo.
“E io…” Mizar si fermò interdetto. Procton aveva spalancato l’occhio e inarcato il sopracciglio.
Si udì distintamente un sussurro: “Ge…ni…chi…”. Un sorriso illuminò il volto del professore, poi la voce si spense.
Povero vecchio confuso, continua a vedere ovunque il nipote scomparso, scosse la testa Alcor con amarezza.
“Padre!” gridò Actarus allarmato.
Maria, turbata, non era in grado di decifrare il presentimento che l’agitava.
“E che avrà mai detto di strano?!?” berciò Rigel aggressivo.
“Papà, ti prego, abbassa la voce!” lo rimproverò Venusia, poi si accostò al letto. “Professore? Professore?” chiamò, scuotendo leggermente la spalla di Procton. “Professore?” chiamò ancora insistente, sollecitandolo con più forza.
Il vecchio, esanime, non reagiva.
“Professore!” gridarono tutti insieme, spaventati.
In quella, un sibilo squarciò la quiete ovattata del paesaggio invernale, sulla neve azzurrina dell’alba piovve l’ombra di un disco cornuto. Tutti si bloccarono stupefatti. Il raggio traente depositò un uomo sulla terrazza, quindi il disco atterrò. Lo sconosciuto entrò deciso dalla vetrata socchiusa.
“Nonno!”
Procton non lo poteva più sentire, ma l’espressione del suo volto gridava che l’aveva visto arrivare. Genichi gettò da parte il casco e si precipitò ad abbracciarlo. Le braccia forti del giovane sollevarono leggermente il corpo abbandonato e se lo strinsero al petto.
“Genichi!” esclamarono contemporaneamente i presenti.
Maria saltò per prima al collo del nipote.
Venusia non credeva ai suoi occhi, le mani abbandonate lungo i fianchi, incapace di muoversi, lasciava le lacrime scorrere.
Actarus guardava attonito ora il padre rapito, ora il figlio riavuto.
“Padre…” il giovane gli si rivolse rispettosamente, ponendogli con affetto le mani sulle spalle: “Ho visto e imparato tanto in questi anni di viaggio”.
Il padre lo fissò: “Anche noi, qui, figliolo. Anche noi”.
L’abbraccio promise che presto si sarebbero raccontati ogni cosa.

Fine




Credits :D



Si ringrazia shooting_star per il nome del figlio di Actarus e Venusia (shooting_star’s fiction gallery, “Buona notte”) e per le idee sul passato di Alcor (7° concorso di Go Nagai Net – Fan Fiction, “Proposte”)
 
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view post Posted on 31/12/2022, 23:40     +5   +1   -1
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Io SONO la Girella

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Pericolo dagli spazi siderali!




È già passato un anno dalla fine della guerra contro gli invasori di Vega.
Actarus e Maria sono riusciti a radunare i superstiti del pianeta Fleed e degli altri mondi vittime dei veghiani, facendo sì che in qualche modo si formasse un unico popolo e non solo: riuscendo a salvare piante e animali dai vari mondi. Un impresa sensazionale! Non fu cosa facile ma, i nostri amici eroi, ci sono riusciti.
Il pianeta ormai è ridente - e la vegetazione vive in osmosi con le varie specie animali, ciò rende Fleed un mondo bellissimo, davvero stupendo!
Inoltre, manca ormai poco affinché tutti gli edifici vengano ricostruiti.
Tutto lascerebbe presupporre a un periodo di pace e prosperità...

Il nostro Actarus ha, comunque, una strana sensazione dentro di lui... ed ecco, come un segno premonitore, che a un tratto...


- Allarme! Allarme! ALLARME!

Si sente gridare!
Si sentono, poi, le sirene che suonano.
La popolazione corre ai bunker sotterranei, il timore e l'ansia si legge nei loro volti!

- Corriamo, corriamo! Ai rifugi... AI RIFUGI... PRESTO!


- Cosa sta succedendo?

Duke Fleed si dirige a tutta velocità, dalla sala del palazzo reale, verso la torre adibita a base di difesa.

Duke: Che succede?

Dr Arles: Maestà! Il monitor satellitare ha avvistato una nube cosmica ammantata d'energia.

Duke: È pericolosa?

Dr Arles: Il computer sta analizzandola!

Duke: Ministro delle scienze, sapete dov'è la principessa Maria?

Dr Arles: Sire, sapevo fosse a fare una passeggiata nei giardini reali!

Duke: Soldato, mettimi in contatto con la principessa!

Soldato: Sì, mio sire!


- Contatto effettuato!


Duke: Maria, non hai sentito l'allarme?

Maria: Pensavo a un'esercitazione!

Duke: Vieni immediatamente alla Base di difesa!

Maria: Subito! (Mi sembra preoccupato! Chissà cosa sta succedendo? Meglio correre. Diamine!)


Maria si dirige, velocissimamente, verso la Torre di difesa! Arriva il più in fretta che può...



Duke: Ditemi dottor Arles, a che punto è l'analisi della nube siderale?

Dr Arles: Ancora un attimo e lo sapremo, maestà!

In quello stesso momento, ecco arrivare...


Duke: Alla buon ora!

Maria: Scusami, Duke!

Duke: Devi essere...

Dr Arles: Scusate, vostre altezze, ho il responso del computer!

Duke: Dite pure, ministro!

Dr Arles: (Sconvolto) Ma... mae... Maestà, si tratta di una cometa a energia ad antimateria! È un insidia siderale... È qualcosa di molto pericoloso! Potrebbe distruggerci! Il nostro pianeta è in grave pericolo!

Duke: Cercherò di abbatterla con Goldrake! Vado...

Dr. Arles: Si fermi! In base alle nostre conoscenze scientifiche, non servirebbe a niente, sire! Non ci rimane che un'unica possibilità di salvezza...

Duke: Quale sarebbe? Ministro?!

Maria: Presto, ci dica?!

Dr. Arles: C'è una piccolissima possibilità che la traiettoria della cometa non sia diretta verso di noi! Non ci resta che aspettare un attimo e pregare!
Computer, analizza la traiettoria della cometa?

Duke: (Che il cielo ci assista)

Maria: (Santo Iddio, salvaci!)

Dr. Arles: Il computer ha emesso il suo verdetto...

Duke: ?

Maria: Non ci tenga sulle spine... (?!)

Dr. Arles: Ecco...



... La traiettoria, anche se per pochissimo, non è diretta verso il nostro pianeta... e non colpirà né pianeti vicini né satelliti naturali, la gravità dei nostri tre Soli ne deviano l'orbita. Siamo salvi!


Maria: Evviva!

Duke: Sia lodato l'universo!

Dr. Arles: (Con il viso tirato e la voce tremolante.) Sua maestà, c'è... c'è... un problema serissimo!

Duke: Mi dica, dottore?

Maria: DOTTORE!

Dr. Arles: Si dirige verso la Terra!

Maria: NOOO! E non possiamo nemmeno contattarli... DUKE!

Duke: Maledizione!

Maria: DOBBIAMO FARE QUALCOSA!

Duke: C'è un solo modo!
Dottore, immagazzini tutti i dati che abbiamo sulla cometa e li trasferisca al computer di Goldrake!

Dr Arles: Subito, sire!

Maria: Fratello! DUKE!

Duke: Andrò sulla Terra!

Maria: Vengo con te!

Duke: No! È pericoloso! Rimarrai qui!

Maria: Invece, no! Verro con te!

Duke: Il mio... è un ordine! Se non dovessi tornare, sarai Regina!

Actarus, ad una velocità mai vista, corre verso l'hangar del suo robot... e al grido di "GOLDRAKE", si trasforma - e decolla a tutta velocità...

Intanto, Maria, tra sè dice: "Non starò qui a guardare, Duke non riuscirà a tenermi su Fleed, andrò sulla Terra a qualunque costo! Alcor, amore mio, amici, aspettatemi!


Intanto, sulla Terra, inconsapevoli di ciò che potrebbe accadere, la vita va avanti...


Alla Base spaziale e precisamente nel suo ufficio. Procton, come al suo solito, prima di svolgere i suoi studi e le sue ricerche, dà un'occhiata ai suoi appunti, ma il suo pensiero, come spesso gli capita, va ad Acatus e Maria: "Figlioli miei che starete facendo?!"


A rallegrare l'ambiente, ecco arrivare...


- Ehi, ehi, ehi!

Procton: Rigel! Come mai da queste parti così presto?

Rigel: E te lo chiedi pure?! Per caso hai la testa tra le nuvole?! Hai dimenticato che sono tre mesi che vengo alla Base a portare il latte fresco?!

Procton: Ah, sì, scusami Rigel... mi capita sempre più spesso di avere la testa sulle nuvole!

Rigel: Uhm! Sì, come no!
Tu stavi pensando ad Actarus e Maria, vero?

Procton: In effetti!

Rigel: Potrei capire se pensassi a Maria, lei sì che è una brava ragazza... bella e brava... sì, bella e brava. Ma ad Actarus... No! No! No! Quel capellone disgraziato da quattro soldi! Se l'avessi qua gli raserei la testa... Quel, quel... quel fefrifico... no... fedigrofo... frigorifero... Insomma! Quello spezza cuori capellone e vagabondo dello spazio!

Procton: Rigel... Ma, ma, ma...

Rigel: Ora mi dirai che ha salvato la Terra e noi tutti!? E della mia Venusia che mi dici? Quel Principe da strapazzo... io, io, io... lo, lo, lo... Bocca mia... taci!

Procton: Venusia è una ragazza forte, non preoccuparti per lei!

Rigel: Preoccuparmi di chi?

Procton: Di Venusia!

Rigel: Di Venusia!? Perché mi dovrei preoccupare?

Procton: Santo cielo, così mi fai andare in tilt!

Rigel: A proposito di Venusia! Questo cestino te lo manda lei...

Procton: Molto gentile, grazie! Ma che bella crostata di ciliegie! Ne porterò un po', anche, al mio staff!

Rigel: Non ce n'è bisogno, c'ho pensato io, gli ho portato: tiramisù, torte di mele, amaretti, krumiri, torte co' bischeri e i cantuccini, crostate, babà, cartellate, cassate, cornetti e i cannoli siciliani...

Procton: Ma è tantissima roba! Come mai?

Rigel: Da quando il tuo "figliastro" se n'è andato, mia figlia non fa altro che fare dolci! Dovresti vedere Mizar, è ingrassato ed è diventato quanto Banta! Ho la casa piena di dolci, tanti dolci, troppi dolci...
Me meschino! Ora è meglio che me ne vada... Sì, me ne vado... Ti saluto Procton, alla prossima volta! Me tapino!

Procton: (Più confuso che persuaso. Povera Venusia! Non so se preoccuparmi di lei per i sentimenti, non ricambiati, che nutre per Actarus - o delle amenità che le dirà il padre... Santo cielo... Rigel mi ha sconquassato il cervello.) Ah, Scusa, ero frastornato! Sì. Ciao, Rigel. Salutami i tuoi figli... e grazie ancora!

Rigel: Certamente! Per alleggerire la testa, fattela una risata!

Procton: Certamente! Hahahahah! (Rigel, nonostante tutto, alla fine mi ha tirato su il morale! Bene, a lavoro! Ma prima...) Buona questa crostata... magari ne mangio ancora un po'!


Rigel s'avvia fuori dallo studio per andare alla fattoria, mentre Procton, prima confuso e, poi, rasserenato, con un leggero sorrisino, dato dall'effetto Rigel, si reca alla torre di controllo.


- "Ragazzi, dice il dottore. Come vanno le cose qui?
I tecnici, però, invece di essere al lavoro, che fanno?"


Yamada: Oh, ci scusi dottore, stavamo mangiando i dolci che c'ha portato Rigel...

Hayashi: Sono deliziosi... squisiti! Ottimiiii!

Hamon: Devo dire che Venusia si è superata!

Procton: Bene, ma ora e tempo di tornare alle nostre ricerche!
A proposito, in questi giorni non ho visto Alcor, sapete dov'è?

Hayashi: Alcor si trova al laboratorio di ricerca Fotoatomico!

Hamon: Oggi non lo si vedrà proprio! Ahahah!

Procton: Hamon... che vuoi dire?

Hamon: Sa, oggi arriva la figlia del dottor Yumi...

Yamada: La bella, Sayaka! Ahahah!

Procton: (Un po' titubante.) Capisco!
Bene. Ora bando alle ciance... e mettiamoci subito a lavoro!

Il teem a unanimità: Sì, dottor Procton!


Intanto Rigel è arrivato alla sua fattoria, entra in casa e sente delle grida...


Mizar: Basta, ti prego, basta! BASTA! PAPÀ!

Venusia: Ma su... dai... Mizaruccio... assaggia, anche, questa torta di mele! Su, su, fa' il bravo!

Mizar: Ma quale bravo! Mi hai già fatto mangiare un sacco di dolci... sono pieno! Ti prego, Noooo! Mi farai venire il diabete! NO!

Rigel: Che succede qui?

Venusia: Papino, ti ho preparato dei dolcetti! Sai... quelli che a te piacciono tanto!

Rigel: Veramente io, io... Non li voglio!
Venusia, Venusiuccia, devi capire che non possiamo mangiare tutti questi dolci. Buoni, per carità, ma, ma...

Venusia: Assaggia questo tronchetto della felicità... ti prego!

Rigel: NOOO! Mizar, fuggi, scappa, CORRI!

Mizar: Corro... vado a scuola!

Venusia: Portati queste cassatelle alla ricotta!

Rigel: Mizar... scappa, salvati almeno tu... FU-GGI-I-I!

Mizar: Vaaadooo! Ci vediamo dopo la scuola! Buona fortuna, papà!



Mizar corre via come il vento...



Venusia: Mizaaar! MIZAR!

Rigel: Venusia, ferma lì! Noi due dobbiamo parlare...

Venusia: Parlare... e di cosa? Hai per caso trovato la ricetta della pastiera napoletana?

Rigel: Ma che pastiera... No! Sentimi...

Venusia: La ricetta delle sfogliatine alla crema? Degli sciù siciliani?

Rigel: No! No! No! Ascoltami!

Venusia: Del panettone ai pistacchi del Bronte? Dei buccellati saccensi? Delle code d'aragosta alla panna?

Rigel: Ma quale panettone, buccellati e code d'aragosta... ti devo parlare di...

Venusia: Fermo! Non dire quel nome, non lo dire... FERMATI... !

Rigel: Non devi fare così?! Lo capisci?! Dolci, dolci - e, ancora, dolci... Per colpa di... di... di...


E prima che possa dirlo, Venusia, gli ficca in bocca un'intera torta di fichi!
Il povero Rigel è costretto a ingoiarla per intero... e poi...



Rigel: (Tossendo come un matto e sputacchiando!) VENUSIA! Allora sei davvero impazzita... Perché non ti comporti come le ragazze della tua età. Chessò: diventa un'influencer, iscriviti su TikTok, su You Tube, Instagram... dovunque... insomma!
Non l'avrei mai detto, ma sono costretto: preferirei che facessi come Chiara Ferragni!
Lo sai quanto mi costa la tua passione per i dolci?
SONO PIENO DI DEBITI! E in più mi consumi tutto il latte, le uova, il burro, le marmellate.
Che devo vendere al mercato? Almeno apriti una pasticceria! Invece, lei, NO! Sai che c'è!? Sai che c'è!? DIMENTICA... DI-ME-N-TI-CA-TI... ACTARUS!

Venusia: NOOOOO! (Piangente!) Perché l'hai detto...?! NOOOO! PERCHÉ!? Actarus, il mio Actarus! ACTARUS!

Rigel: Venusia, piccola mia!

Venusia: PAPÀ... Perché se ne andato via così?

Rigel: Figliola... tu sei una ragazza stupenda... eroica, bellissima, ma devi fartene una ragione. Quel bietolone non era adatto a te!

Venusia: Ho deciso! Mi farò suora. Sì, suora! Mi farò chiamare: suor Venusia dal cuore incatenato!

Rigel: Non puoi!

Venusia: Perché? Non ti piace il nome?! Allora, mi farò chiamare: suor Ikaru crocifissa appesa al muro!

Rigel: Non è questione di nome! Noi non siamo cattolici!

Venusia: Non siamo cattolici! E cosa siamo... allora?

Rigel: Cosa siamo? Siamo personaggi immaginari, manga, anime, di un certo Go Nagai!
Uno di questi giorni, ci vado io a parlare con questo Nagai: deve imparare che le povere ragazze, campagnole, innamorate, non devono essere abbandonate dai bei principi capelloni! E a proposito di capelli, gli dirò che me li disegni, per non parlare dell'altezza; c'è di buono che mi ha disegnato meravigliosamente bene, tanto da rendermi il personaggio più bello e affascinante di tutte le sue serie! Essì, sono bellissimo io! Di cosa stavamo parlando?! Boh!?
Ora vado a sistemare le stalle! Riordina le idee e se ti va, raggiungimi a darmi una mano! Capito, figliola... e seppi, no, suppi, no, zappi, insomma, ti voglio bene!

Venusia: (Che in realtà, non c'ha capito una cippa di niente.) Va bene, paperino, no, volevo dire... paparino!

Ma in mente sua: "Actarus, ritorna da me! Amore mio! Sono rincuorata, le cose inutili e strampalate che mi ha detto mio padre mi han confortato, sì, non so perché? Ma ora sono sicura: Actarus, mi ama, sì, lui... mi ama! Non può che essere così! Arf! Arf!


Sembrerebbe che Venusia sia ritornata in sè stessa... pensa il povero Rigel, ma...


Venusia: Oh! E visto che mi sento rincuorata e piena di energie... che faccio? Mi è venuta un'idea: farò dei biscotti mandorlati a forma di Goldrake, Goldrake 2, Delfino Spaziale e Trivella Spaziale... E perché no...?! A forma di Mazinga Z e, naturalmente, di Actarus.
Sììììì... di Actarus! Hahahahahah! Hihihihihihih!
Il mio adorato... Hohohohohoh! Farina, farina! Zucchero, zucchero! Uova, uova! Burro, burro! Dove sono... ah, ecco... mandorle tritate... tante mandorle tritate... ecco, ecco! Impasto, impasto! Hahahahahah! Hihihihihihih! Hahahahahah! Hihihihihihih! Impasto, impasto! Hohohohohoh! Mio padre ne sarà felicissimo... per non parlare di Mizar! Hihihihihihih!

Rigel: Sono sicuro che dopo la mia paternale, Venusia sarà ritornata in sé stessa.
Essì... sì... sì... sì! Che grande uomo che sono! Avrò preso dal mio trisavolo nippo-americano, Buffalo Rigel, come quando consigliò al colonello Custer, nella battaglia di Little Big Horn, di attaccare gli indiani! Che grande vittoria quella! Essì, ma non sono sicuro: vincemmo o perdemmo? Forse pareggiammo? Ma non ha importanza!
Che grande famiglia la mia, un giorno i Makiba governeranno il mondo... Essì... sì, sì, sì! Hahahahahah!



Intanto sul pianeta Fleed...


Maria, prende uno dei pochi caccia spaziali a disposizione... e s'appresta a decollare per dirigersi sulla Terra.

Comunicazione radio...

Dr Arles: Si fermi, la prego, Principessa! Non parta!

Maria: Non si preoccupi, io e mio fratello torneremo sani e salvi. Si occupi, lei, del regno.

Dr Arles: Principessa! PRINCIPESSA! NOOO!

Maria: Star Fleed... decollo! Star Fleed... velocità iperspaziale! (Alcor, sto tornando da te, aspettami amore mio!)


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Ed ecco che...


- Etcì! Etcì! Etcì!



Al laboratorio di energia Fotoatomica...



Dr Yumi: Salute! Che c'è, Koji, sei raffreddato?

Koji: In realtà, no! Che strano ora mi fischiano le orecchie!

Dr Yumi: Magari c'è qualcuno che ti pensa! Chissà, magari è Sayaka! Hahahahah!

Koji: La smetta dottore. A proposito, mi farebbe un piacere?

Dr Yumi: Certo, dimmi?

Koji: Mi chiamerebbe... Alcor, sa sono affezionato al doppiaggio storico!

Dr Yumi: (?) Ma certo, Rio, ah, scusa! Volevo dire... Alcor!

Alcor: Grazie, dottore! Ma quando dovrebbe arrivare Sayaka?

Dr Yumi: In effetti dovrebbe mancare poco al suo arrivo! Ho mandato Idaki a prenderla all'aeroporto!


Ed ecco che a un tratto si sente...


- Eccomi! Eeeeccomi! Eeeeccomiiii!


Dr Yumi: È lei?!


Alcor: Sì... È... pro-pri-o... la sua vo-ce!


Gli corre incontro...
Ma Sayaka, lo dribbla repentinamente - e corre ad abbracciare il padre, il quale ricambia affettuosamente...


Alcor: Sayaka!

Sayaka: Che strano, ho sentito una voce stridula e fastidiosa...

Alcor: Sayaka, non dirmi che ce l'hai con me?

Sayaka: Padre, vorresti dire a Koji... che non mi deve rivolgere la parola!

Dr Yumi: Sayaka...

Sayaka: Va bene, va bene... lo farò per te... Che c'è, Koji?

Alcor: Veramente, ora mi chiamo Alcor.

Sayaka: Prima Rio, poi Koji e ora Alcor, ma di cognome fai sempre Kabuto?

Alcor: CER-TAME-NTE! Comunque, non capisco perché tu ce l'abbia così tanto con me? NON SO!

Sayaka: Ah, quindi non sai perché ce l'ho con te?! Non lo sai dici?! LUI NON LO SA!

Alcor: Sì... NON LO SO!

Sayaka: E di quella... Maria Grazia... che mi dici, eh?

Alcor: (Meglio che me la svigni!) Ehm! Dottore... ora devo andare!

Dr Yumi: (Rimbambito.) Sì, certo!

Sayaka: Sì, vattene! VATTENE PURE, PRIMA CHE TI SPACCHI LA FACCIA!

Alcor: E, comunque, se mi vuoi vedere vieni alla Base di Ricerche Spaziali, abito e lavoro lì, ora!

Sayaka: Sì, vattene pure... VATTENE!
RIO... KOJI... ALCOR!
Ehm! L'idiota se n'è andato veramente!
PADRE!

Dr Yumi: (Divertito ma anche un po' alterato.) Sayaka, mi spiace dirtelo, ma io nelle cose tra te e Alcor non ci voglio entrare. E ora scusami, ma ho da fare!


Sayaka, allora, si ritira nella sua stanza, stizzita.
Arrivata lì, si lancia sul suo letto e con aria furbesca: "Alcor, troverò un modo affinché io possa farti perdere la testa per me."


Intanto, alla fattoria Betulla Bianca, il povero Rigel lavora come un forsennato!

Rigel: Non capisco perché Venusia non sia venuta ad aiutarmi?! Ma certo, le mie parole l'avranno sicuramente fatta riflettere. Però, anche se mi avesse aiutato, saremo sempre in alto mare. Ora che ci penso: quando c'era Actarus qui le cose andavano bene, devo ricredermi sul capellone, lavorava sodo e cosa più importante, non mi costava niente! Ora mi ritrovo con quintali di letame e con un sacco di debiti! Me meschinooo! Uffa!
Non ce la faccio più, sono stanco morto! Come faccio a mandare avanti la fattoria tutto da solo? Devo trovare assolutissimamente qualcuno che m'aiuti. Ho trovato, lo chiederò a Banta! Ma prima guarderò la mia solita puntata di Daitarn 3!

S'avvia per andare a casa, canticchiando:

Uno per tre e tre per uno perché... ne... ne... ne...
Insieme noi usciamo sempre dai guai... ne... ne... ne...
E difendiam la Terra... ne ne ne... dall'ombra della guerra
Il nostro cuore batterà per la libertà
Intrighi e loschi piani dei mostri disumani
Il nostro raggio spazzerà nell'immensità...
Daitarn, Daitarn...
Arriva già il nemico scappa...
Ma tu ci sei amico Daitarn...
Evviva Daitarn 3... ne... ne... ne... ne... ne...



Arriva a casa con aria fiera...



Rigel: Venusia, Venusia, sei nella tua stanza?

Venusia: No, Papà! Sono in cucina a fare dei dolci!

Rigel: Ah, sei in cucina a fare dei dolci. Bene, bene.
CHE COSA? Venusia, non so più come dirtelo!

Venusia: Dirmi cosa?

Rigel: (Come faccio? Come faccio? Oh, Venusia, mi sei impazzita.) Niente! Anzi, no, prepara qualcosa per pranzo.

Venusia: Già fatto!

Rigel: (Ho paura a chiederlo.) Che hai preparato?

Venusia: Per Mizar una crostata di lamponi e per te una crostata al cioccolato!

Rigel: (Con i lacrimoni negli occhi.) No-n vo-glio do-lci.
Vuol dire che mangerò qualcos'altro. Magari, pane e formaggio!

Venusia: Papà, non c'è né pane né formaggio!

Rigel: E, allora, cosa c'é che non sia un dolce?

Venusia: Niente!

Rigel: Vado in salotto!



Nel frattempo arriva Mizar da scuola...


Mizar: Saluti! Oggi sono uscito presto! (Butta lo zaino sulla poltrona!) Papà, presto accendi la TV tra un po' comincia Daitarn 3!
A proposito, cosa c'é per pranzo?

Rigel: Ciao, figliolo, accendo subito! (Dispiaciuto.) Purtroppo da mangiare...

Mizar: Non non dirmelo... cassata o cannoli, crostata o torta di mele... vero? UFFA!

Rigel: Sì, purtroppo... Me meeeschiiinoooo!

Venusia: Oh, Mizar, avevo dimenticato che venivi presto, oggi. Bene ti porto la crostata.

Mizar: No, no, grazie lo stesso, sono sazio!

Venusia: Ingrati!
Bene, torno in cucina, devo provare a fare gli sciù alla panna!

Mizar: Papà, devi fare qualcosa per Venusia, ti prego!

Rigel: C'ho provato!

Mizar: Mi spiace dirlo, ma penso che ti dovrai rivolgere a uno psicologo!

Rigel: Non posso!

Mizar: So che per un padre è difficile ammetterlo e che non riesci ad accettarlo, ma Venusia è fuori di testa! Perciò, fa' qualcosa...

Rigel: Invece, so benissimo che la nostra Venusia è svalvolata di brutto! Ma, ma...

Mizar: Ma, cosa?

Rigel: Figliolo, è che mi sono finiti i soldi, siamo in difficoltà economiche gravi...

Mizar: Vuoi dire che siamo poveri in canna?

Rigel: Sì, figliolo. Ma ho un'idea, almeno per il lavoro, appena finisce Daitarn, gli telefono e chiederò a Banta che venga a lavorare alla fattoria!

Mizar: E come lo pagherai?

Rigel: Sono dettagli! Ora godiamoci Daitarn 3!

Insieme: Per la pace del mondo combatterò i Meganoidi con il Daitarn 3! Se non hai paura di questa potenza, combatti!

E ora con l'aiuto del sole vincerò! Attacco solare: energia! Hahahahahahah!


Finito l'anime in TV... Rigel corre a telefonare a Banta...


Rigel: Pronto, pronto... casa Harano?

Hara: Sì, pronto!

Rigel: Vorrei parlare con Banta!

Hara: Con chi parlo?

Rigel: Sono Rigel!

Hara: Rigel, chi?

Rigel: Rigel, il papà di Venusia e Mizar!

Hara: Ah, il piccoletto strampalato...

Rigel: A me dici piccoletto strampalato... Io, il personaggio più bello di Go Nagai! Ma senti questa!

Hara: Hahahahahahah! Tu, il più bello? Hahahahahahah!
Io e mio figlio siamo i più belli in assoluto... Come potrei non esserlo... Hahahahahahah!

Rigel: Ma se eravate delle comparse da due soldi! Vi hanno pure eliminato dalla serie! Hihihihihihhih!

Hara: Come sempre non c'hai capito niente. Gli autori, ci han tolti dall'anime perché io è mio figlio stavamo rubando la scena agli eroi della serie, io con la mia beltà avrei offuscato la tua Venusia e quella ragazzina di Maria... e mio figlio col suo coraggio e il suo fascino avrebbe oscurato quei bamboccioni di "Actarus o Duke o Daisuke" e "Alcor o Rio o Koji"... o come caspita si chiamano! E poi io preferisco Hiroshi Shiba e quindi Jeeg Robot D'Acciaio! Hahahahahah!

Rigel: Ma guarda che sciocchezze mi tocca sentire! Me scarognato! ALLORA, MI FAI PARLARE CON BANTA O NO?

Hara: Va bene! MA NON TI ALTERARE! Sei fortunato che devo andarmi a mettere la pomata per duroni e le cipolle ai piedi, altrimenti t'avrei asfaltato!
Banta, BANTA! A telefono!

Banta: Chi è, mamma?

Hara: È quello sconclusionato di Rigel!

Banta: Pronto, Rigel! Ma sei tu! Ciao!

Rigel: CIAO! Certo che sono io! Chi dovrei essere?

Banta: Dimmi!?

Rigel: Non me lo ric-ordo p-iù, tua madre mi ha rimbambito più di quanto lo sia già di natura! Ah, sì, me lo ricordo!
Devi venire a lavorare alla mia fattoria?

Banta: Mi spiace, Rigel, non posso!

Rigel: Perché?

Banta: Ho dei validi motivi. Primo, mi devi duecentomila yen dall'ultima volta che ho lavorato per te...

Rigel: Quisquiglie!

Banta: Secondo, la mia mamma si è risposata...

Rigel: CO... CO... COSA? Tua madre si è risposata... e con chi? Con Ippotommaso?! Su non scherzare... chi se la sposa quella! Hihihihihihih!

Banta: Rigel, non scherzare! Mia madre s'è davvero risposata e, per giunta, con un gran signore... il Dottor Dari!

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Rigel: Quel dottor Dairi, quello, quello? (Ma chi la sta scrivendo questa storia... Gigi la Trottola? Ma fatemi un piacere... su!)
IL DOTTOR DAIRI s'è sposato con tua madre Hara! MA GUARDA TE.
AUGURI E FIGLI MASCHI, ALLORA!
Comunque, BANTA, MI AIUTI O NO?

Banta: (Sarà mica impazzito o geloso? Certo magari, sotto sotto gli piaceva mia madre, sicuramente! È così bella!) Comunque, ho un altro terzo motivo per cui non posso aiutarti, sono molto impegnato con la mia fattoria, il mio nuovo papà m'ha comprato un bel po' di animali: maiali, cavalli, galline, conigli e caprette... Ho un'idea! Potresti mettere un'inserzione su internet, chiedendo che offri lavoro per la tua fattoria! Sicuramente troverai qualcuno...
Ora ti devo salutare, vado con mia madre e mio padre a comprare un nuovo trattore. Ti saluto Rigel, salutami Venusia e Mizar!

Rigel: (Pazza per pazza, meglio lui!) Se vieni a lavorare da me, ti permetterò di corteggiare Venusia, anzi, farò di più, ti caldeggerò! (A cosa mi sono ridotto!)

Banta: No, mi dispiace, devi sapere che ormai sono innamorato di Miwa, spasimo per lei: un giorno riuscirò a conquistarla! Pensa che dopo un anno che la conosco, finalmente si è ricordata il mio nome, il mio nome, capisci! MIWA, MIA MIWA...

Rigel: Pronto, pronto, pronto... Ha chiuso! Povero... dottor Dairi! E povero me! Dannazione!
Mizar, Mizar, MIZAR!


Mizar: Che c'è, papà?

Rigel: Metti un annuncio su internet.

Mizar: Detta pure...

Rigel: Scrivi: Cercasi lavoratore, non perditempo, né extraterrestre né capellone né tanto meno nobile, alla fattoria Betulla Bianca di Rigel Makiba, si accettano anche i poco esperti, ma che abbiano tanta voglia di lavorare.

Mizar: Ma che annuncio è?

Rigel: SCRIVI!

Mizar: Va bene, va bene! Fatto!

Rigel: Benissimo! Ora non ci resta che aspettare e trovare un modo per fare un po' di soldi.

Mizar: Come pensi di fare?

Rigel: Ho un'idea! Venderò il mio tesoro!

Mizar: Davvero! Quale tesoro?

Rigel: (Con i lacrimoni!) I lasciti della famiglia Makiba!

Mizar: Vuoi dire i tesori di famiglia?

Rigel: Sì figliolo! Ci serve il denaro per mandare avanti la fattoria e per mandare Venusia in analisi!

Mizar: Da uno bravo, mi raccomando!

Rigel: Lo so, lo so! Intanto: VENUSIA! PORTACI LE CROSTATE CHE ABBIAMO TANTA FAME!

Venusia: SUBITO!

Mizar: Ma... papà!

Rigel: Hai ragione, figliolo, ma è sempre meglio di morire di fame, devo andare a lavorare io...

Mizar: (Piagnucolando.) Che ho fatto di male!?



Nello spazio siderale... Actarus continua il suo viaggio per la Terra...


Actarus: È tempo di fare un salto nell'iperspazio.
Goldrake, energia al massimo, VAI! SALTO IPERSPAZIALE!


Effettuato il salto cosmico, Goldrake si ritrova ormai a metà strada per la Terra, il suo viaggio sembra andare bene, quando a un tratto, il robot si ritrova avvolto da una forte energia elettromagnetica...


Actarus: (???) Che succede? Ah, aahh, ah! Sono bloccato! Maledizione... e questo cos'é?
Ma è un Macrofago Spaziale!

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- Se non faccio qualcosa... sarò spacciato!
Aaaaah! AAAAAHHH! TUONO SPAZIALE! Maledizione, non funziona!
Motori al massimo! Non si smuove! Se non mi libero, la sua energia, mi disgregherà! AAAAAH! AAAAAAAH!
È la mia fine! Sto perdendo i sensi! GOOOLDRAAAKEEE!


Mentre il nostro eroe è nei guai fino al collo, al laboratorio di energia Fotoatomica... Ecco la nostra amica Sayaka... più che mai adirata con Alcor, il ragazzo in tutti i modi ha cercato di mettersi in contatto con lei telefonicamente, ma l'irrequieta ragazza non ne ha voluto sapere niente! Lei orgogliosa com'è, declina ogni tentativo del ragazzo di spiegarsi e in qualche modo di giustificarsi.


Sayaka: (Nella sua camera.) Quel mandrillo di Alcor, me la deve pagare! Ha osato fare il cascamorto con quella ragazza. UHM! Quanto mi da' ai nervi! Dovrà strisciare ai miei piedi, dovrà chiedermi scusa in ginocchio e dovrà supplicarmi come una dea! Gli farò perdere la testa per me, dovrà sbavare per me, dovrà diventare schiavo della mia bellezza - e dopo averlo intrappolato nella mia ragnatela... Hahahahahahahahah! Sarà mio! Gli farò vedere chi è Sayaka Yumi! Hahahahahahahahah! Devo escogitare un piano!


La ragazza allora si mette al PC per dare un'occhiata alla mappa della zona e per localizzare la base di ricerche spaziali... Quando a un tratto, le compare una notifica nel sito.



Sayaka: Cos'è? Apriamo: "Cercasi lavorate alla Fattoria Betulla Bianca."
Questa cosa casca come il cacio sui maccheroni! Se non sbaglio la fattoria è adiacente alla Base - e i Makiba sono... Ahahahahahahahah! Mi farò assumere, così Alcor verrà tutti i giorni da me, lo farò penare e poi... Ahahahahahahahah!
Alcor, sarai mio, sì, mio... MIO! Ahahahahahahahah!



La ragazza va a prendere la sua moto e sfreccia alla Fattoria... Intanto... Rigel, dopo aver finito di lavorare, quatto quatto, sale nella sua soffitta per aprire il grande baule con i lasciti di famiglia... Apre il Baule...



Rigel: Vediamo cosa abbiamo qui. Gioielli, no questi no! Ci sono dei preziosi appartenuti alla mia dolce nonna Righella, gioielli che ha, anche, indossato la mia cara e amata moglie, Midoriko! (Lacrime!) Su, Rigel, fatti forza! Il biberon del mio avo, no, questo non ha valore. Un cannocchiale appartenuto al mio antenato, il pirata Barba Viola. L'orologio guasto di mio zio Tont, no! La parrucca di zia Bitta, no! Forse questo... il pettine di avorio della bisnonna Zelda... quanto varrà? Questo, sì! Ah, l'occhio di vetro di nonno Mizar... questo no! Cosa c'è di valore? Uffa! Ah, ecco! Questi son tesori!
L'armatura da samurai e le spade appartenute al mio trisavolo samurai: Occhio di Lince Rigel! Valgono milioni di yen! Venderò queste cose allora! E questa cos'è? Sembra una pergamena! (La apre.) Sembra la mappa di un tesoro! Che c'è scritto? Non ci si capisce niente! Mai una gioia! Me meschino!



Ecco che però suona il campanello!


Rigel: Chi è che rompe? VENUSIA, APRI, SUONANO ALLA PORTA!

Venusia: NON POSSO! HO GLI SCIU' NEL FORNO!

Rigel: Devo sempre fare tutto io. Figlia degenere! (Scende, apre la porta...) Ehm! E tu chi saresti... (?)



Nello spazio...



Actarus: È la fine per me!



Ma ecco che a un tratto...



- Tuono astrale!



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Maria: Actarus, liberati, presto!


Actarus: Maria! Sì, subito... Goldrake, a tutta forza!


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Maria: Usa il tuono spaziale!

Actarus: Tuono spaziale!


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Maria: Tuono astrale!


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Actarus: A tutta potenza!

Maria: MASSIMA POTENZA!


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Maria: L'abbiamo disintegrato!

Actarus: Sì, ce l'abbiamo fatta! Maria, mi hai salvato la vita! Sei arrivata giusto in tempo. Grazie!

Maria: Sennò a che servirebbero le sorelle minori!

Actarus: Mai stato così felice che tu m'abbia disubbidito. Ora presto, dirigiamoci sulla Terra!

Maria: (Strano, avrei pensato a un rimprovero... e invece!) Sì, a tutta velocità!

Actarus: Goldrake, avanti!



Sulla Terra!


Rigel: Ehm! E tu chi saresti... (?)

Sayaka: Buongiorno!

Rigel: Saluti! Dimmi?

Sayaka: Sono la risposta al suo problema!

Rigel: Non mi interessa, grazie!


Le chiude la porta in faccia! Ma Sayaka, suona di nuovo il campanello! Rigel riapre la porta... tutto scontroso... e...


Rigel: Senti, ragazzina, in questa casa siamo tutti shintoisti!

Sayaka: Anch'io lo sono!

Rigel: Vuoi dirmi che non sei una testimone di Geova?

Sayaka: Ma quale testimone di Geova. Io sono Sayaka Yumi, figlia del professor YumiYumi. Le devo parlare... Signor?

Rigel: Rigel Makiba! E ora che ci siamo presentati, dimmi?

Sayaka: Non mi fa entrare?

Rigel: Perché?

Venusia: Papà, chi è alla porta?

Rigel: Una certa, Sayaka Yumi!

Venusia: Che cosa?



Venusia corre subito alla porta!



Venusia: Si accomodi, prego! Papà, guarda sempre Daitarn 3 tu! Questa è una vera eroina, ha difeso il Giappone da Herl e dai Mikenes!

Rigel: E che sarà mai... Non è mica Jun Hono, eh?

Sayaka: Molto di più di Jun! Io sono il personaggio più bello ed eroico di Go Nagai!

Rigel: Non dire castronerie! Sono io il personaggio più bello ed eroico di Go Nagai!

Sayaka: No, io!

Rigel: Invece... sono io!

Venusia: (????) Vieni, Sayaka, io sono Venusia, ti offro qualcosa!

Sayaka: Bene, una persona per bene! Accetto!
Un caffè mi andrebbe proprio!

Venusia: Non c'è il caffe! Posso offrirti: biscotti, cannoli, torte, crostate, sciù, cornetti e pan dolce!

Sayaka: Capisco, sei una pasticcera?

Venusia: No, veramente...

Sayaka: Ah, allora, capisco! Un uomo deve averti spezzato il cuore. Succede sempre così! Figurati che io mi sono buttata sui libri a rotta di collo, studiavo come una matta... e mangiavo tantissima cioccolata, fino al raggiungimento della mia laurea!
Bene, passami la crostata!

Venusia: Ecco!

Sayaka: Gnam! Buonissima! Fa' una cosa, metti un po' di tutto sul tavolo! Amo i dolci!

Venusia: Sì, certo!

Sayaka: Gnam! Gnam! Gnam! Ancora, ancora!

Rigel: Ei, tu! Sarai... mica... una Sayan!

Sayaka: Chiedo scusa! I tuoi dolci, Venusia, sono stupendi, buonissimi!

Venusia: Molto gentile, grazie!

Rigel: Incoraggiamela, su! Non dovevi parlarmi?

Sayaka: Ho letto che cerca qualcuno per lavorare alla fattoria?

Rigel: E allora?

Sayaka: Bene, eccomi. Mi trasferisco qui e da domani inizierò a lavorare con lei!

Rigel: Nemmeno per sogno! Come puoi immaginare che io accetti? Mai e poi mai! Guarda tu... questa...

Sayaka: Lo farò gratis!

Rigel: Dolce Sayaka, benvenuta nella fattoria Makiba! Brava ragazza! Venusia, cosa aspetti! Falle vedere la sua camera!

Venusia: Subito, papà! Vieni con me, Sayaka!

Sayaka: Ti seguo!



Arrivati, nella stanza degli ospiti...


Sayaka: Molto bella questa stanza, grazie!

Venusia: Ora ti lascio!

Sayaka: Aspetta, vorrei parlare con te...

Venusia: E di cosa?

Sayaka: Dell'uomo che t'ha ridotto così!

Venusia: Non mi va di parlarne!

Sayaka: Dici, sul serio? Su! Dopo ti sentirai meglio!

Venusia: HO DETTO DI NO!


Gli occhi di Sayaka brillano, la ragazza dà uno schiaffo a Venusia, dicendole: "Reagisci! Non puoi permetterti di abbassare la guardia, nessun uomo merita che una ragazza si riduca così! Sii forte, lotta, sì, lotta per riconquistare lui, ma soprattutto per riconquistare la tua dignità, la tua femminilità, la tua forza. Appena ti ho vista, ho capito subito di che tipo di ragazza sei. Venusia, tu sei una persona unica, speciale - e qualsiasi ragazzo farebbe follie per te - e perciò, rialzati e dimostra a tutti chi sei. IO SO CHI TU SIA: TU SEI VENUSIA, COLEI CHE HA DIFESO LA TERRA PILOTANDO IL DELFINO SPAZIALE! TU SEI UN'EROINA!"


Venusia, piangente, abbraccia Sayaka!


Sayaka: Piangi, sfogati, che siano le tue ultime lacrime!

Venusia: Sono stata una stupida, una vera stupida!


Intanto sotto, in salotto, Mizar e Rigel parlano.


Mizar: Vuoi dirmi che la famosa Sayaka abiterà qui e lavorerà alla fattoria!

Rigel: E quello che ho detto!

Mizar: Wow!

Rigel: Ora abbiamo un altro problema.

Mizar: Quale?

Rigel: Che mangiamo a cena?

Mizar: Già!


Intanto scende Venusia: "Sto uscendo, vado a fare la spesa! E incredibile che in questa casa non ci sia più niente da mangiare! Tornerò tra poco, intanto non fate chiasso e non disturbate l'ospite! Ah, buttate tutti quei dolci!"



Mizar: Li butto io i dolci!

Rigel: Scusa, Venusia, e i soldi dove li prendi?

Venusia: Ho qualcosa con me, sono più che sufficienti! Inoltre, prendi questo. È un assegno del ministero della difesa giapponese per me... che ho già girato a nome tuo! Ciao, a dopo!

Rigel: Sì, vai, grazie! U-n u-n u-n u-n u-n - un as-seg-no! UN ASSEGNO!


Appena legge la cifra... Rigel sviene!


Mizar: Papà... PAPÀ... Come ti senti?

Rigel: ZERI! Tanti zeri, tanti zeri, tanti zeri! CINQUANTA MILIONI DI YEN!

Mizar: CINQUANTA MILIONI DI YEN! Ohhh, svengo!

Rigel: Alzati figlio mio! Che miracolo, che miracolo!

Mizar: Santi dei! SIAMO RICCHI! Non dovrai vendere più niente! E a quanto vedo, Venusia è ritornata in sè!

Insieme: EVVIVA! EVVIVA! EVVIVA!


Sembra, che le cose siano cambiate, le cose girano bene e cosa più importante è che finalmente Rigel e Mizar possano mangiare altro che non siano dolci. I nostri amici non sanno però cosa succederà a breve alla nostra amata Terra!
Intanto... è già giorno, e Rigel e Sayaka dopo aver fatto colazione si preparano ad andare a lavoro, mentre Venusia s'appresta a fare le pulizie di casa e Mizar si prepara per andare a scuola! Ma prima... Venusia va in camera di Sayaka!

Venusia: Dimmi, Sayaka! Sei venuta a lavorare qui per avvicinarti ad Alcor, vero!

Sayaka: Non voglio mentirti! Sì, è così, spero che lui venga al più presto e che provi a riconquistarmi!

Venusia: Ma ti si legge in faccia che tu sei innamorata di lui!

Sayaka: Beh, lui non lo sa! Dimmi, com'è Maria?

Venusia: È una ragazza meravigliosa e bellissima! Sai che, in qualche modo, voi due vi somigliate?

Sayaka: So che entrambi sono tuoi amici, ma voglio chiederti: Alcor è innamorato di lei?

Venusia: Per quanto riguarda Alcor è difficile a dirsi, ma sono più che sicura che Maria è innamorata di lui!

Sayaka: Invece l'uomo che ami tu dovrebbe chiamarsi Actarus, vero?

Venusia: Sì!

Sayaka: Hai per caso una sua foto? Sono curiosa!

Venusia: Ora te la mostro, ecco...

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Sayaka: (Occhi a cuoricino!) Santo Adone! Ma è bellissimo!

Venusia: Ed è anche una splendida persona!

Sayaka: Bene, ora per me, è tempo di andare a lavoro!

Venusia: Bene, anch'io ho delle cose da fare a casa, devo riordinare e pulire tutto! A dopo!

Sayaka: A dopo!



Intanto al Laboratorio di energia Fotoatomica, arriva una telefonata di Alcor per il professor Yumi, è di Alcor, ragazzo vuol sapere di Sayaka. Il professore allora informa il giovane che la figlia...


Dr Yumi: Mia figlia, è andata a lavorare alla fattoria Betulla Bianca. Non chiedermi il perché, ma è così!

Alcor: Alla fattoria, dice (?) Ma che cosà passa nella testa di quella ragazza?
Certo che è proprio strana!

Dr Yumi: Sai com'é Sayaka. Non ho potuto impedirglielo. M'ha detto che voleva rilassarsi con la natura e gli animali - e che per un po' non voleva saperne di tecnologia e ricerche scientifiche!

Alcor: (Che idee strampalate!) Va bene dottore, la ringrazio, andrò a trovarla lì, allora! La ringrazio e la saluto!

Dr Yumi: Va bene allora. Saluti!

Alcor: (Che cosa le passerà per la testa! Natura, animali... Mah, ci credo poco. Comunque mi immagino cosa combinerà insieme a Rigel. Non ci voglio pensare! Hahahahahahah!)


Alla fattoria...


Rigel: Sayaka, mentre io mi occupo di mungere le mucche, tu ripulisci la stalla!

Sayaka: Certamente!

Rigel: Bene!


Dopo un po' di tempo!


Rigel: A quanto vedo te la sei cavata bene! Brava, molto brava!

Sayaka: Cosa ne farà di questa paglia sporca di letame?

Rigel: Semplice, la farò essiccare e ci ricaverò dell'ottimo fertilizzante!

Sayaka: Ottima idea!

Rigel: Mentre porto il carro del letame ad essiccare. Tu dovrai ripulire i pollai, dar da mangiare il mais alle galline e raccogliere le uova.

Sayaka: Va bene!


Strano, ma vero, Sayaka lavora sodo e bene, per la gioia di Rigel. Dopo un altro po' di tempo!


Rigel: Hai già finito?

Sayaka: Sì, non è stato difficile! Ho anche dato da mangiare: ai maiali, ai conigli, alle caprette, alle oche, ai cavalli. Naturalmente prima ho ripulito tutto! Ho anche annaffiato i fiori, gli ortaggi e gli alberi da frutto!

Rigel: Sei, fantastica e meravigliosa, quindi oltre ad essere una bella ragazza, sei anche una lavoratrice infaticabile!

Sayaka: (Sorridente e fiera!) La ringrazio, le avevo detto che sarei stata ligia!

Rigel: Sayaka! Sayaka!

Alcor: SAYAKA! SAYAKA!

Rigel: Sayaka! Sayaka!

Alcor: SAYAKA!

Rigel: SAYAKA! SAYAKA! SAYAKA! SAYAKA!

Sayaka: Che c'è? Sono stanca!

Rigel: Sveglia! SVEGLIA!

Sayaka: Eh, mi scusi signor Rigel, mi sa che dopo aver fatto tutto quel lavoro, mi sarò riposata un po'!

Rigel: Che lavoro?

Sayaka: Ho ripulito la stalla e ho dato da mangiare: ai maiali, ai conigli, alle caprette, alle oche, ai cavalli... ho pure ripulito tutto! Ho annaffiato i fiori, gli ortaggi e gli alberi da frutto! Stavo raccogliendo anche i lamponi!

Rigel: Ma se ti ho lasciato qui tre ore fa...

Sayaka: Vuol dire...

Alcor: Hahahahahah! Hai dormito tutto il tempo!

Sayaka: Quindi ho sognato tutto!?

Rigel: Mamma mia! Sì, hai sognato tutto!

Alcor: Hahahahahah! Hahahahahah! Hahahahahah!

Sayaka: E tu cosa ridi?! Vattene, prima che ti prenda a schiaffi!

Alcor: Hahahahahah! Hahahahahah! Hahahahahah!


Comunque, nonostante tutto, con l'aiuto di Alcor, alla fine i nostri amici sono riusciti a svolgere tutti i lavori della fattoria e, anche, la nostra Sayaka, impegnandosi al massimo, questa volta facendo un buon lavoro, per la gioia e la sorpresa di Rigel e per il divertimento di tutti quanti, Venusia e Mizar, compresi!
Dopo, grazie al consiglio di Venusia, finalmente, Alcor e Sayaka, decidono di chiarirsi... Si trovano in giardino. Dopo essersi spiegati e riappacificati... Sayaka, diretta, fa questa domanda ad Alcor...



Sayaka: (Arrossisce.) Dimmi, Alcor, cosa provi per me?

Alcor: Ma... ma... ma... Che domande mi fai? Non scherzare?

Sayaka: Non sto scherzando? E tu sii serio!

Alcor: (Arrossisce.) Tu mi piaci, sei una ragazza meravigliosa...

Sayaka: Alcor, io ti amo!

Alcor: Sayaka, io sono molto confuso, mi serve tempo...

Sayaka: Questa tua decisione ha a che fare con Maria?

Alcor: Sì! Ora è meglio che vada. (La guarda negli occhi.) Ci vediamo.

Sayaka: (Lo guarda negli occhi.) Sì! Ci vediamo!


Alcor, a un tratto, prende la mano di Maria, la tira a sé, la ragazza arrossisce, poi lo abbraccia, si specchiano l'uno negli occhi dell'altra e si baciano! Un bacio intenso e sentimentale. Ad un tratto il loro idillio viene interrotto da Rigel che chiama Sayaka...


Sayaka: Sì, signor Rigel, sto arrivando!

Alcor: Vado!

Sayaka: Alcor, ora vai!

Alcor: Sì!


Sayaka torna a casa e Rigel le dice che le vuole parlare...


Rigel: Sayaka vorrei farti vedere una cosa. Tra le cose di famiglia ho trovato questa pergamena, io non ci ho capito niente, e mi chiedevo se tu ci capiresti qualcosa.

Sayaka: Me la faccia vedere.

Rigel: Ecco qui...


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Sayaka: È incredibile... questo è un manufatto antichissimo...

Rigel: Guarda che se è una mappa del tesoro, io non divido con nessuno, eh!

Sayaka: Non è una mappa del tesoro! Questo se è vero, vale più di un tesoro!

Rigel: Vale più di un tesoro! Cos'è allora?

Sayaka: È un circuito alieno!

Rigel: Un circuito alieno!?

Sayaka: Precisamente la pergamena sembra venire dalle Pleiadi! Quella nebulosa rovente sembra che rappresentasse un pericolo per i pianeti di quel sistema stellare - e molto probabilmente da questo "schema circuito" si è in grado di creare una qualche arma per distruggerlo o deviarlo!

Rigel: Dici davvero? Come fai a sapere queste cose?

Sayaka: Ho studiato alla NASA!

Rigel: Bisogna consegnarlo al dottor Procton, allora!

Sayaka: Penso, proprio, di sì!



Alla base spaziale.



Hayashi: Dottor Procton! Oggetti volanti non identificati!

Dr Procton: Cosa? Hamon, telescopio spaziale!

Hamon: Sì, subito, signore!

Dr Procton: Inquadra! Ma quello è Goldrake! Hayashi, mettimi in contatto!

Hayashi: Collegamento effettuato!

Dr Procton: Actarus, sei tu figliolo?

Actarus: Sì sono io, padre!

Maria: E ci sono anch'io!

Dr Procton: (Lacrime.) Maria!

Actarus: Padre, ci accingiamo ad atterrare alla Base, poi ti spiegherò!

Dr Procton: Certo, figliolo! Hayashi, prepara tutto per l'atterraggio! E avvisa Alcor.

Hayashi: (Lacrime.) Sì, subito, dottor Procton!


Goldrake e la Star Fleed atterrano alla Base! Actarus e Maria corrono verso la torre di controllo. Ma nel corridoio gli si fa avanti Alcor, appena lo vede, Maria gli si getta al collo, Alcor, felice come non mai, la fa piroettare, al grido di: Maria! Maria! La ragazza è felicissima, ride e piange contemporaneamente gridando anche lei: Alcor! Alcor! Poi il ragazzo va incontro ad Actarus, i due s'abbracciano, gli occhi dei nostri eroi si rigano di lacrime.
Tutti e tre, poi, corrono verso la torre di controllo.
Actarus e Maria si dirigono verso il dottor Procton, abbracciandolo contemporaneamente. Un alone di felicità avvolge la sala controllo, ma a un tratto l'alone di felicità diventa un'amara tristezza, Actarus rivela che un grave pericolo e diretto verso la Terra.
Dà tutte le informazioni del caso e consegna un memory card contenente tutto ciò che la civiltà di Fleed ha raccolto della cometa ad antimateria.


Actarus: Dov'è Venusia!

Alcor: È a casa sua!

Maria: Su, va' da lei!

Dr Procton: Che aspetti, corri!

Actarus: (Arrossisce!) Allora vado!


Actarus, allora si avvia con la sua moto alla fattoria Betulla Bianca. Mentre Procton e gli altri scienziati della Base si consultano. Arrivato a casa Makiba, Actarus suona al campanello...


Rigel: Chi è?

Actarus: Actarus!

Rigel: Entra pure, Actarus!

Actarus: ???

Rigel: Venusia, Mizar, è arrivato Actarus!

Mizar: Chi è arrivato?

Rigel: Actarus!

Mizar: Ma, ma, ma, ma quello è Actarus!

Rigel: Sì, Actarus, perché che ho detto io?!

Actarus: Mizar!


Mizar, corre ad abbracciarlo.


Mizar: VENUSIA, VENUSIA... C'E ACTARUS!

Venusia: La smetti di scherzare!

Rigel: ??? ACTARUS! SVENGO!


Arrivano, Venusia e Sayaka!



Venusia: Allora, che c'è?

Actarus: Venusia!

Venusia: ACTARUS!

Actarus: VENUSIA!


I due ragazzi corrono l'uno verso l'altra, Venusia si getta tra le braccia di Actarus, i due giovani senza pensarci un attimo, si baciano!


Mizar: WOOOOW!

Sayaka: Che romantici!

Rigel: Ma che fateeeee?! Mizar, prendi il mio fucile! Gli faccio vedere io a questo! CORRI!

Mizar: Papà, lascia perdere, non vedi che sono innamorati!

Sayaka: Signor Rigel, non siamo più negli anni settanta, siamo nel 2023! Si dia una calmata ed esalti l'amore!

Rigel: Dici!? Va bene, allora! Figliola, infondo, sei cresciuta. Actarus, non fare soffrire mia figlia, mi raccomando, eh! Sennò ti vengo a sparare pure su Fleed,io!

Actarus: Certamente, Rigel!

Tutti, allora, si mettono a ridere, Actarus fa così la conoscenza di Sayaka e racconta tutto sulla cometa ad antimateria, e la gioia a un tratto diventa tristezza anche in casa Makiba! Fin quando Sayaka racconta della pergamena ad Actarus. Allora lui, Sayaka e Venusia s'avviano alla base di ricerche spaziali! Arrivati, la consegnano al dottor Procton!

Dr Procton: Hayashi, il telescopio ha già localizzato la cometa?

Hayashi: No, signore!

Dr Procton: I miei scienziati stanno ricreando il circuito! Lo inseriremo nel tuono spaziale di Goldrake. Spero che non ci voglia molto!

Actarus: Va bene!

Hayashi: Dottore, la cometa è visibile!

Dr Procton: Trasmettila al monitor!

Hayashi: Fatto!


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Alcor: È enorme!

Venusia: Signore, aiutaci!

Hayashi: Il circuito è finito, lo stanno montando nel Goldrake!

Dr Procton: Actarus, tieniti pronto!


Actarus abbraccia Venusia e le dice che se tutto andrà bene la porterà con sè su Fleed, la ragazza risponde che tutto andrà bene e che lei sarà ben contenta di seguirlo! Nel frattempo, sia Maria che Sayaka s'avvicinano ad Alcor, le due ragazze allora si guardano in cagnesco. Alcor è più confuso che persuaso, come al solito... d'altronde.

Dr Procton: Actarus, puoi andare!

Actarus: Corro!

Assieme: Buona fortuna!


Actarus corre come un fulmine. Si dirige verso lo scivolo, lo raggiunge, e vi si fionda dentro, come al solito. Si ritrova sul sedile a propulsione... si lancia, effettua la doppia giravolta... e...
Al grido di: Duuuke... Fleeed...
Ecco... avviene la trasformazione.
Indossa la sua splendida divisa, ormai è dentro la cabina di Goldrake...



- "Diii-zer... Go-oo... ! Velocità Fotonica"


Actarus: Ho avvistato la cometa... mi avvicino!


Dr Procton: Bene! Stai molto attento!


Actarus: Eccola... TUONO SPAZIALE!

Nella Base tutti pregano per il nostro eroe!


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Dr Procton: È esplosa!

Venusia: E Actarus?

Maria: Fratello!

Alcor: Actarus, ti prego, rispondi!?

Sayaka: Actarus!

Venusia: (Piangendo.) ACTARUS! ACTARUS!

Actarus: Sto bene!

Insieme: EVVIVA! LA TERRA È SALVA!

Actarus: Sto tornando a casa! Goldrake, avanti!



Tutto è bene quel che finisce bene! La Terra è salva, ancora una volta i nostri eroi hanno fatto di tutto per difenderla. Rigel in questo caso, grazie a un po' di fortuna, s'è rivelato fondamentale in questa avventura, un vero eroe! Chissà quante nuove avventure ci saranno ancora? Actarus e suoi amici vi aspettano per nuove storie e nuove avventure.

Ciriciao, gente!



FINE



Edited by gigi la trottola - 1/1/2023, 02:58
 
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